viaggio a Mumbai

 

 

 

 

Le rupie fecero maggior effetto dell'invito, poiché il chitmudgar, venale
come la maggior parte dei suoi compatriotti […]

Alla conquista di un Impero

 

Le rupie in India fanno sovente dei veri miracoli.

Il bramino dell’Assam

 

 

 

 

PREMESSA

 

Arrivo a Mumbai nella notte. Una notte umida e calda, pur essendo appena sopraggiunta la stagione secca. Per l’aria un odore pungente, particolare e indescrivibile; un odore che mi avvolgeva tutte le mattine e che è uno dei ricordi più vividi che mi sono rimasti di Mumbai.

         Formalità lunghissime all’ufficio immigrazioni, ancor più prolungate in causa della dilagante pandemia suina, recupero bagagli, tassì con annessa rapina, check-in all’albergo e lunga attesa notturna in attesa della stanza: fumo una sigaretta dietro l’altra (avrei fatto vergognare anche Yanez!), leggendo tra i colpi di sonno Le due tigri. Per la strada che si apre tra la folta vegetazione, un via vai di risciò e cani randagi, mentre tra le fronde delle numerosissime palme ciarlano eserciti di cornacchie, irrispettose dell’oscurità silenziosa.

         In tarda mattinata la camera è pronta e finalmente mi posso coricare per qualche ora. La lunga veglia e il fuso sfavorevole mi hanno spossato.

Non dormo, ma almeno riposo e nel pomeriggio dopo una veloce toletta scendo a prenotare l’auto per il primo giro. Il direttore della compagnia è un bel sikh sulla cinquantina, parla anche un po’ di italiano. L’autista che invece mi avrebbe accompagnato per tutto il soggiorno è Firoz, un musulmano originario del Gujarat ma trapiantato a Mumbai da due generazioni. Tra noi si instaurerà un bel rapporto di amicizia, corollato dai fiumi di rupie provenienti dalle tasche del sahib bianco (le mie!).

E partiamo così, per quello che gli inglesi amano definire il city sightseeing 

 

















Prima tappa ai Dhobi Ghat, enormi lavatoi a cielo aperto, dove frotte di uomini lavano a mano e senza posa, da mane a sera, centinaia di indumenti di ogni sorta, in un groviglio coloratissimo di festoni che contrastano nettamente con il grigio plumbeo dell’acqua di lavaggio, il cui riciclo non è garantito che dalle piogge monsoniche nella stagione calda.

 

Mani Bhavan è la residenza scelta da Gandhi durante la sua permanenza a Mumbai. Un’abitazione modestissima, ovviamente, avvolta dagli alberi, in cui è ancora conservata la sua vastissima biblioteca, oltre ad un numero imprecisato di cimeli d’ogni specie. La casa ospita un bellissimo museo di miniature di creta, che illustrano, a puntate, la travagliata vita del Mahatma.

 

La stazione ferroviaria principale è quella di Victoria Terminus, una piccola cittadina in effetti; al suo interno si circola principalmente con auto e moto, tale è la sua estensione. L’edificio principale, così come gli uffici laterali, sono ovviamente di età vittoriana. Curiosamente, i treni locali non hanno porte: per facilitare lo scorrere del traffico (che nei giorni settimanali è veramente indescrivibile), e per garantire un minimo di ventilazione nelle vetture, vengono praticate delle aperture lungo i vagoni, munite di appigli a cui la gente può aggrapparsi durante la corsa. Per certi versi, anche i pullman urbani sono simili.


 

Il Gateway of India, è senza dubbio il monumento principe di Mumbai. Eretto per commemorare la visita dei sovrani d’Inghilterra nel 1911, è una vera e propria porta sull’India, i cui gradini si tuffano direttamente in mare. In questi pressi si trovano gli imbarchi per la vicina Elephanta Island, come pure il famoso e lussuosissimo hotel Taj, assalito dai terroristi il 26/11/2008.  

 




Mumbai di notte assomiglia proprio ad una grande metropoli americani: i suoi grattacieli sono appunto definiti “Manhattan style” e ospitano gli headquarters delle principali aziende, incluse quelle di Ratan Tata, delle banche, delle compagnie assicurative e finanziarie. Ben altra cosa si vede, guardando in basso. Se l’India è il paese dove convivono continue contraddizioni tra antico e moderno, Mumbai è la città dove il contrasto tra benessere e miseria è più forte. Mi sarei aspettato una divisione più netta, ed invece i palazzi signorili si succedono alle misere capanne di povera gente; i famosi slums, si estendono oramai fino ai piedi dei centri commerciali; auto di grossa cilindrata sfrecciano tra torme di elemosinanti, storpi, lebbrosi e bambini nudi ed affamati. Il cuore si stringe ma non bisogna commettere l’errore di pensare di poter sistemare le cose. Sarebbe una rovina per il proprio spirito e soprattutto per le proprie tasche. Non lo dico con cattiveria o con rinnovato snobismo occidentale: è solo la mia personale elaborazione della realtà riscontrata laggiù.

Ho accennato alle auto: il traffico di Mumbai merita un particolare riferimento.

Per l’intera città scorre un’immane fiumana di veicoli che nessuno si può immaginare. Un turista non sarebbe in grado di guidare e muoversi agevolmente.

Suzuki, Honda, Hyundai, soprattutto berline e, ovviamente le Tata. Pittoreschi sono poi i taxi urbani, vecchie Fiat 1100 dipinte di giallo e di nero, adornate di adesivi e fregi e un grappolo di piccoli peperoni sul paraurti anteriore; del medesimo colore sono i risciò, ossia delle Api Piaggio appositamente modificate.

L’enorme mole di veicoli si intreccia per le strade nella totale inosservanza delle regole di circolazione: semafori, indicazioni, strisce e perfino gli ordini dei policemen, vengono deliberatamente ignorati. Laddove la strada fosse a tre corsie, gli indiani riuscirebbero a circolare su sei, sette colonne in continuo sorpasso. Nei rari momenti di sosta, gli autisti si sporgono fuori per sputare la saliva arrossata dal consumo di un rinnovato betel, fatto di tabacco grezzo e calce. It’s Mumbai, my friends!

 

GIORNO I

 

La mattina di buon ora mi reco sulla spiaggia di Juhu, la parte della città in cui è situato il mio hotel. Juhu è una zona residenziale, molte stelle di Bollywood, musicisti e politici abitano qui, incluso Kabir Bedi. Agli occhi di un occidentale, appare come un’area un po’ meno malconcia delle altre.

         La spiaggia non è affollatissima di mattina, pure mi diverto a guardare diversi gruppetti di ragazzi che giocano a cricket, lo sport nazionale inculcato dagli inglesi. Per la battigia corrono velocemente dei bambini, pronti a carpire il turista generoso e a chiedere un centinaio di rupie per farsi scattare una foto.


Un ragazzino mi saluta mentre fa il bagno. Ricambio. Poi esce dall’acqua, si avvicina al suo zainetto e ne trae un pacchetto di patatine al formaggio, che si affretta ad offrirmi. Si chiama Depak, e con una curiosità degna della sua età (10 anni), mi domanda il mio nome, da dove vengo, cosa ci faccio a Mumbai. Chiacchieriamo per un quarto d’ora, poi lui si tuffa nuovamente ed io riprendo a camminare lungo il litorale. Tentano di vendermi dell’hashish, che rifiuto energicamente due volte: la mia moralità non può certo venir meno oltremare!

         Nel pomeriggio ritrovo Firoz e la mia macchina e ci inoltriamo nella parte meridionale della città. Ci vuole una buona ora e mezza, con traffico moderato se si vuol attraversare per intero Mumbai, partendo dal Gateway of India o Nariman Point (più in basso è zona vietata, essendo il quartier generale della Marina da Guerra) fino ai suburbi di Malad.

Prima tappa, la moschea di Haji Ali, che contiene le venerabili spoglie dell’omonimo santo. È situata in mezzo al mare, raggiungibile con la bassa marea tramite una stretta passerella, affollatissima di fedeli, mentre ai margini vi sono lebbrosi elemosinanti, ciechi, mutilati e altra povera gente.

L’edificio di culto è circondato da una cinta in muratura, che delinea uno spazio occupato da venditori di acqua gelati ed altre freschezze.

Lascio i miei stivali in custodia per dieci rupie, mi annodo la pashmina per coprirmi la testa e mi metto in coda per entrare nella moschea.

L’interno è pressoché vuoto, salvo il feretro centrale sovrastato da un baldacchino di marmo e coperto di broccati e fiori. I fedeli si appressano al santo, invocano il suo nome dopo quelli di Allah e Maometto e depositano le proprie offerte (fiori e foglie di palma) ai piedi del feretro, dove due sacerdoti le raccolgono e le dispongono attorno alla struttura centrale.

 


Lasciamo Haji Ali e andiamo verso Colaba, un quartiere situato lungo la costa. Niente di speciale salvo bellissimi panorami sul golfo antistante, punteggiato di barche e navi alla fonda. La spiaggia di Chowpatty, coloratissima e popolata di bagnanti, nel seno della Marine Drive, un lunghissimo boulevard che si estende per un lungo tratto e che di notte, illuminato graziosamente da una striscia di lampioni, prende il nome di Queen’s Necklace (la collana della Regina).

Sorprendo un povero indiano in preghiera: si è ricavato un piccolo altare in un muro, a pochi passi dalla sua baracca di cartoni, ed è intento ad incensare le sue statuette e a pregare intensamente.

Poco più oltre ci sono gli Hanging Gardens, un bellissimo parco inglese con prati, siepi, fontane e luci, ideale per le famiglie con bambini ma anche per le giovani coppie. Una superba stele di marmo simboleggia il monumento all’amicizia. È qui che abbraccio Firoz, dicendogli di non chiamarmi più Sir o Sahib,  ma di considerarmi come un amico.

Nei boschi circostanti si trovano le misteriose Torri del Silenzio, inaccessibili a tutti fuorché ai Parsi. Non credo ci sia bisogno di spiegare: basta leggere qualche racconto di Salgari per conoscere le lugubri usanze funebri della comunità Parsi.

Desidererei parecchio vederle, anche solo da lontano; rinuncerei perfino a scattare anche una sola fotografia per potermi avvicinare. Ma purtroppo devo desistere, anche su consiglio di Firoz, e proseguo oltre con un certo rammarico.

 


Scendiamo verso il Gateway, per fermarci poco distante, al celebre Leopold Café dal gusto tipicamente occidentale, anch’esso bersaglio dell’attacco terroristico del 26 Novembre dell’anno passato. Il tempo per un paio di succulenti gamberoni speziati ed una birra, poi essendosi fatto tardi, rotta sull’albergo.

L’hotel è avvolto dal fumo dei fuochi d’artificio che si stanno sparando sulla via, vi sono fiori, ghirlande, nastri, persino una banda musicale in bellissime uniformi. Un cartello alla porta mi illumina: questa sera, sulle terrazze dell’albergo si svolgerà una Ring Ceremony, la festa di fidanzamento di una coppia di sikh del Punjab.

Nell’ascensore incontro il “promesso”, scambiamo due parole e poi mi invita a salire all’ultimo piano e prendere parte ai festeggiamenti: che gioia per lui aver “trovato” un ospite internazionale per il suo fidanzamento! Farà sicuramente bella figura con la sua futura sposa…

Io accetto di buon grado, passo per la mia stanza per una doccia, infilo la mia nuova e fiammante sherwani, i churidar, il turbante e persino le mojri, quindi salgo. Tutti mi guardano con stupore e curiosità, per rompere il ghiaccio saluto la fidanzata e i genitori della coppia, poi vengo definitivamente coinvolto nel giro di danze e nella consumazione del sontuoso banchetto, piccante e speziato come sono stati tutti i pasti che ho consumato durante il mio soggiorno.

Scorrono però fiumi di bhang, la mistura di latte e oppio che tanto piace agli indiani. A me ne bastano tre bicchieri per dirmi soddisfatto!

 


Devo dire, senza voler esagerare, che ho goduto di una certa popolarità presso la gente di Mumbai! Non pochi hanno voluto stringermi la mano o persino farsi fotografare insieme a me. Dapprima non sapevo come spiegarmi questa cosa, seppure pensavo ad un’ultima latente soggezione per “il bianco”, poi ho chiesto a Firoz che sorridendo mi ha svelato il mistero.

Tutta l’ammirazione suscitata stava, in primo luogo per come io portavo la pashmina passata intorno al collo: Firoz mi ha detto che solo le grandi stelle del cinema o i personaggi importanti la tengono e a quel modo.

Poi, come ho avuto modo di constatare nel corso delle mie passeggiate a Mumbai, per la foggia dei miei baffi. Sì, spesso la gente mi guardava, mi indicava sorridendo ed esclamava “Mangal Pandey!”, l’eroe nazionale, il sipai che per primo si ribellò dando vita al Great Mutiny del 1857, diventato popolarissimo in India solo grazie al recente film con la top star Aamir Khan.

 

GIORNO II

 

Questo è stato senz’altro il giorno più avventuroso di tutto il viaggio. Di buon mattino io e Firoz ci dirigiamo verso il Sanjay Gandhi National Park. Chiamarlo parco è assolutamente riduttivo, non essendo altro che l’ultimo grandissimo brano di Jungla rimasto a Mumbai, un vero polmone verde che trova spazio tra i grattacieli ma sempre minacciato dall’espandersi degli slums.

La zona ospita delle meravigliose cave buddiste millenarie, le Kanheri Caves, ancora meta di preghiera durante i principali festival.

La guida che ci accompagna si chiama Ganesh, come il dio elefante del pantheon hindu. È in gamba e preparatissimo e mi introduce subito nel sito.

 

Le cave sono stare ricavate nella roccia viva e, cosa strana a dirsi, costruite dall’alto verso il basso.

All’ingresso si trovano due grandi stupa, delle colonnette sferiche sacre ai seguaci di Buddha, dove vengono conservati i simboli degli elementi fondamentali dell’universo. Tutt’intorno, scolpiti nelle pareti, vi sono bellissime miniature sulla vita di Siddharta, le dodici posizioni per la meditazione e scene di vita quotidiana dei monaci.

Vengo introdotto in un ampio salone, al centro l’immancabile stupa, e Ganesh comincia ad intonare degli incomprensibili salmi. L’eco è non di meno meravigliosa e posso solo immaginare la potenza delle voci di duecento e più monaci inneggianti.

Ho indovinato: questa è la sala delle preghiere, anticamente adibita alle preci del mattino e del vespro, costruita in modo da ricevere la maggior quantità possibile di luce naturale nel corso della giornata.

Ammiro due fenomenali statue di Buddha, alte sei metri, poi torniamo all’entrata del parco. Il safari oggi è chiuso ma mi si offre lo stesso la possibilità di vedere gli animali: mi costerà solo un migliaio di rupie in più. Acconsento, e la mia guida fa alcune telefonate, dando poi istruzioni a Firoz di recarsi all’entrata dell’area proibita del parco.

Dopo alcuni istanti di sosta, giunge rombando una scassatissima motocicletta rossa: in sella c’è Viddya un ragazzo della mia età che mi accompagnerà nella Jungla. E io che pensavo che le rupie extra servissero per garantirmi anche una jeep da safari!

No, ci inoltriamo nel folto della vegetazione, dove incontriamo subito un branco di cervi pomellati, gli axis salgariani.

Mi ha fatto un certo effetto stare nel regno della tigre senza eccessiva protezione. Mi guardavo attorno con una certa preoccupazione, sapendo che qualcosa, attraverso le foglie ricambiava i miei sguardi.


Giungiamo presso un edificio fatiscente. Viddya mi spiega che qui tengono rinchiusi gli animali che hanno assalito o divorato degli esseri umani. I famosi mangiatori d’uomini, gli admikanevalla! Che dopo aver assaggiato il sangue umano non vanno in cerca d’altro, protagonisti di tante storie salgariane.

L’odore di selvatico, tanto noto al naso di Sandokan e amici, mi invade prepotente.

Dentro le gabbie sonnecchiano due leoni con le relative consorti. Uno è tenuto in isolamento perché particolarmente aggressivo. Per la verità con me si dimostra impassibile, mi guarda fisso, non reagisce al flash della macchina fotografica e sbuffa sonoramente, forse per il caldo.

L’edificio accanto ospita invece delle superbe pantere, decisamente scontrose e pronte a mostrare i denti non appena qualcuno si avvicina. Fanno udire un sordo miagolio e contemporaneamente si ritirano sulle zampe posteriori, abbassando le orecchie.


Rimontiamo in sella alla moto per proseguire la strada, che strada non è più. Oramai percorriamo una stretta via sterrata, facendo salti da paura, mentre la vegetazione si infittisce sempre di più, tanto che non possiamo procedere con velocità.

- Dove andiamo, Viddya? – chiedo

- Dalle bâg, Sir – mi risponde il mio novello Kammamuri.

Andiamo dunque a vedere le tigri, e dopo poco raggiungiamo altre gabbie. Da lontano scorgo una grandissima tigre bianca poi, camminando, mi trovo davanti ad una porticina di filo di ferro intrecciato. Viddya l’apre poi mi dice:

- Prego, entra, Sir –

Lo guardo sorpreso.

- Entro? Nella gabbia? –

- Sì Sir, nella gabbia –

- Viddya vi è la tigre qui dentro! E non abbiamo neanche un coltello. È pericoloso –

- Non preoccuparti, Sir. La tigre ha già mangiato e poi siamo sottovento, non ci sentirà. Prego entra –

Poi, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, mi precede, facendomi ancora cenno di seguirlo. Io mi faccio coraggio ed entro e lì, a non più di trenta passi da me, una bellissima tigre intenta a ripulirsi. Viddya non si sbagliava: ha altri interessi e non si cura di me.


Io posso scattare alcune fotografie e dedicare la mia attenzione a due bei giovani esemplari, King e Queen, due gemelli rimasti orfani e la cui madre è stata uccisa dalla tigre che ho appena visto.

Malgrado abbia trovato un po’ di sicurezza preferisco non allontanarmi troppo dalla porta e anzi, non appena Viddya mi sollecita di far presto, salto fuori.

Torniamo rapidamente da Firoz e Ganesh i quali hanno avuto un poco invidiabile incontro con un cobra.

Sborsate le ultime rupie, salutiamo i ragazzi del parco e torniamo verso Mumbai.


GIORNO III e IV

 

I giorni successivi sono stati quelli più spirituali, con un ampia rivista di templi e moschee. Purtroppo la macchina fotografica non era ammessa e i pittoreschi rituali che ho visto non posso condividerli per immagini.

Iniziamo dal tempio di Krishna. Il culto pel dio azzurro s’è trasformato in un vero business: accanto al tempio sorgono l’hotel “Krishna”, il centro benessere “Krishna, e il palazzo dei congressi “Krishna”.

Io e Firoz entriamo, questa volta la custodia delle scarpe sale a sessanta rupie. Il tempio è una meraviglia indescrivibile, gli interni di marmo bianco e rosa finemente lavorati. I fedeli siedono a terra, a gambe incrociate, davanti a tre padiglioni foderati di rosso. Le pareti ospitano delle teche contenenti delle statue, a mio giudizio di ceramica, raffiguranti le leggende legate al dio. Rivedo il mare di latte, il serpente Addisescien (Adisesha) e i mille cateri di cui Salgari ci ha parlato.  

Mi unisco alla folla nell’ascoltare il guru che dirige la cerimonia, armato di microfono e avvolto in una tunica arancione.

È un botta e risposta tra sacerdote e fedeli:

- Hare Krishna! -

- Hare Krishna! -

- Hare Hare! -

- Hare Hare! -

- Hare Ram! -

- Hare Ram! –

Poi al culmine della gioia generale, i tre padiglioni vengono aperti da tre giovani, sempre vestiti d’arancione e con il capo rasato, che prendono in seguito a soffiare entro grosse conchiglie, ricavandone suoni possenti e melanconici.

Tutti si prostrano dinanzi alle tre statue di Krishna appena scoperte, quindi il guru si avvicina ad ognuno per donare una profumatissima collana di grani di sandalo, terminante in un pennacchio rosso. Conservo ancora la mia.

La via dell’uscita ci forza a passare attraverso una batteria di venditori pronti ad appiopparti statue, gioielli e libri su Krishna.

Prossima tappa il tempio sikh. Per raggiungerlo bisogna arrancare non poco in mezzo al traffico, essendo situato in una delle vie principali. Ho anche una piccola disavventura con un eunuco questuante, ma alla fine riesco ad entrare.

I sikh di guardia mi impongono di togliere gli stivali e di intrecciarmi il turbante in testa. Obbedisco, poi salgo le scale e varco la soglia del tempio. 

Non vi è molto all’interno. Le pareti e il soffitto sono a cassettoni, intervallati da strisce di vetro per permettere una sufficiente illuminazione. Al fondo della sala scorgo una specie di ricco cuscino, contornato da una distesa di fiori rossi e arancioni, disposti a formare un disegno geometrico. Il tutto sovrastato da una tenda di broccato, adorna di nappine dorate ai lembi.

Mi siedo davanti all’altare e leggo “Pregate i Guru dicendo Wahe Guru”. E così inizio:

- Wahe Guruuuuuuu! –

Che poi è anche il grido di guerra dei sikh.

Resto per un po’ nella solitudine del luogo, ascoltando il rilassante silenzio e riflettendo sul mio apprezzamento per questa fede.

Prima di recarci a visitare l’ultimo luogo, Firoz mi mostra poco distante Banganga, un bacino di raccolta dell’acqua monsonica, sui cui ghat la gente del posto viene a compiere  le proprie abluzioni, non potendo disporre del Gange come i compatrioti di Benares o Calcutta.


Il tempio di Ganesh mi ricorda un po’ l’Hawa Mahal di Jaipur, la corona di Krishna, pur essendo perfettamente bianco. Oppure un castello costruito su forme cilindriche mal disposte. Siddhivinayak, tale è il nome indiano. Martedì è il giorno di maggior affluenza, essendo favorito al dio.

Passata la linea di polizia un ragazzino mi ferma, ingiungendomi di togliere calze e scarpe. Così faccio. Mi versa dell’acqua sulle mani, raccomandandomi di sfregare per bene, poi mi da un cestino contenente dei fiori, un cocco ed un piccolo fazzoletto rosso e mi fa segno di seguirlo.

Lo seguo camminando sull’asfalto rovente, facendomi largo tra la moltitudine di reali fedeli accorsi per salutare Ganesh. Salto l’enorme fila, e questo mi costerà un bel pugno di rupie, giungo a vedere la rossa statua del dio, poi consegno la mia offerta al sacerdote il quale prende il panno, il cocco e i fiori, e mi ritorna una scatola di dolcetti gialli, una collana di fiori pure gialla, che mi passa al collo e due bacchette di incenso sacro.

Devo segnarmi la fronte con dei pigmenti rossi, contenuti in un vassoio d’argento. Avvicino il medio al piattino, ma un signore accanto a me mi ferma: devo usare l’anulare. Ed ho anche io il mio bel bindi.

All’uscita del tempio altri due sacerdoti: uno mi versa in mano del latte che ha servito a lavare la statua. Il ragazzo mi dice di berne un po’ e passare il restante sul capo; l’altro mi da tre granelli di non so quale sostanza da tenere in bocca fino all’uscita dall’area sacra.

Recupero gli stivali e pago il pizzo al ragazzo. Assaggio un dolcetto: che schifo! Zucchero puro con qualche altra diavoleria. Un vecchio guru mi ferma, mi attorciglia intorno al braccio destro un filo di lana rosso e giallo, mormorando qualche strana preghiera. Non capisco quel che dice, ma riesco ad afferrare due volte: Kalì! Kalì! (speriamo bene!). Al termine mi tocca le spalle e la fronte e poi esclama

- Money! (denaro) –

- Ah! Furfante, sai anche parlare inglese quando si tratta di batter cassa! – penso, però gli rifilo una banconota da cento rupie. Ancora me la passa sulle spalle e sulla testa e mi lascia andare.

Bah! Che strambe cerimonie e quante superstizioni hanno questi indiani!...

Arrivo in albergo stremato e colgo subito l’occasione per sbarazzarmi dei dolcetti. Nella hall fa bella mostra una statua d’alabastro raffigurante Ganesh: immagino che siano tutti suoi fedeli, quindi mi avvicino al desk dicendo:

- Qualche dolcetto dal tempio di Ganesh? –

Tutti sono ben lieti di accettare, ma non possono servirsi dalla scatola. Devo essere io a offrirglieli di mia mano, per di più con la sinistra.

Va bene, pur di levarli di mezzo!

 

GIORNO V

 

La mattina non sono proprio in forma. Dev’essere stato quel diavolo di guru che mi ha messo addosso la maledizione di Kalì. Oppure il gustosissimo Chicken Masala Tikka mangiato il giorno prima, che per poco non mi mandava in crisi respiratoria tanto era piccante, e che oggi si ripresenta a dar noia all’intestino.

Una tazza di tè nero dell’Assam e digiuno forzato mi rimettono a posto, e nel pomeriggio posso continuare il mio viaggio. Meta di oggi: Bollywood.

È stato Firoz a interessarsi per questa gita. Parlavamo assieme dell’India, della sua storia, della sua cultura. Si è sorpreso della mia conoscenza sul tema: - You have a good knowledge – mi ha detto. Il discorso è poi inevitabilmente caduto sul cinema e lui si è offerto di contattare un suo amico che lavora all’interno degli studios per farmi fare un giro (pagando un extra, neanche a dirlo).

Prima però, una passeggiata al fresco dei giardini chiamati Little Kashmir.

E li chiamano giardini! Ma se anche questi sono lembi di Jungla!


Comunque sia è un posto decisamente suggestivo, riposante e relativamente fresco. Un luogo perfetto per le coppie, come mi suggerisce Firoz, e come mi confermano le decine di fidanzati avvinghiati in timorose effusioni.

Ci mettiamo sulla via di Bollywood, imbarchiamo la guida ed entriamo. Le rupie extra sono per il caché della guida, per il capo della polizia, e per le varie guardie che incontreremo sulla strada. In effetti c’era un sacco di security.

Bollywood è come una Cinecittà immersa nel verde, nella Jungla più selvaggia, qua è la abbattuta per fare posto ai più vasti scenari.

Ho visto Parigi ricostruita, un “caffè” italiano, Tokyo, un palazzo in stile maharati, il villaggio degli amori, dove vengono girate le scene di ogni prima luna di miele, pagode e templi. Tutte cose meravigliose, incredibili e, la grande magia del cinema ti porta, alla curva successiva, ad ammirare il retro di lamiera e cartone.

Io mi sono addirittura fatto immortalare su uno dei set principali: La Pagoda delle Pagode!

È questa una costruzione fissa, bellissima ma disadorna. È il luogo di culto di qualsiasi divinità, a seconda dell’esigenza.

Resta in piedi infatti solo la struttura in muratura. Le statue e le decorazioni vengono aggiunte di volta in volta che i film lo richiedono. Così quella è stata e sarà la pagoda di Shiva, di Visnù, di Ganesh, di Lakshmi e, come scherzava Firoz facendomi la foto, la Mangal Pandey’s pagoda.


Scendiamo allegramente verso altre location, fumando dei biri, piccoli sigari profumati formati da foglie arrotolate (a me sembrava alloro), regalatici dalla guida. Incrociamo la ripresa di una partenza per il viaggio di nozze: faccio una foto col papà sikh.


È uno dei protagonisti di un serial per la TV (ci troviamo infatti tra i set del Governo, i più grandi e i più famosi di Mumbai), ma non avrebbe sfigurato tra i rajaputi della Rani dell’Assam o tra gli equipaggi di Sandokan!

Lasciamo la scena, giù il sipario…

 

GIORNO VI

 

Con ritrovato spirito di marinaio, mi imbarco oggi alla volta di Elephanta Island, situata nella baia di Mumbai, a cinque miglia ad Est. Prima conosciuta come Gharapuri Island, fu rinominata Elephanta dai portoghesi nel XVII sec. poiché, sbarcando scorsero la statua di un elefante, rimossa in seguito dagli inglesi e collocata  nella sua attuale sistemazione: tra i Victoria Gardens e il Victoria and Albert Museum. In definitiva, i grossi pachidermi, sull’isola non ci sono mai stati!

Mi diletto a spiegare a Firoz gli impieghi dell’una o dell’altra nave ancorata, leggendone i nomi e provando ad indovinare la nazionalità; indicandogli come avvengono il caricamento e la discarica, con quali apparecchi e con che modalità…

Arriviamo, dopo un’ora di navigazione, al molo di pietra dell’isola. Veniamo subito accolti dall’ennesimo birbante che si qualifica come guida, e che vorrà sicuramente una parte delle mie rupie. Si chiama Ashok è nativo dell’isola e vive in un villaggio a poche miglia dalla costa, nel folto della foresta.

Passiamo lungo la banchina, attraverso a mangrovie e pantani degni delle Sunderbunds del Bengala, poi inizia una lunga scalinata che ci porterà all’ingresso delle Elephanta Caves, uno stupendo sito dedicato a Shiva.

Alla base della scala si affollano i portatori, muniti di sedia a spalle, mentre lungo il percorso un corteo di venditori delle più strane chincaglierie. È un passaggio forzato, inevitabile e sta al visitatore non cedere alle lusinghe di ogni mercante.

Anche le scimmie fanno la loro comparsa in massa: piccoli macachi, macachi adulti e macachi dal muso rosso. Si aggirano per gli alberi guardando incuriosite i passanti, scuotendo talvolta i rami e facendo piovere nugoli di strane bacche (simili ai nostri pinoli) sui malcapitati. Scendono a terra per chiedere o arraffare cibo dai turisti.

Le grotte di Shiva sono state ricavate nella roccia, come le Kanheri visitate qualche giorno prima. Queste sono però più ricche e meglio conservate. Sulle pareti sono presenti, ancora miracolosamente intatti, degli altorilievi raffiguranti il dio distruttore degli indiani e numerose delle sue leggende.

Trovano spazio Shiva in meditazione e Shiva danzatori, i demoni affrontati e sconfitti e la moglie Parvati.

L’area in cui ci muoviamo è sorretta da colonne di notevole diametro, di colore rosso e anch’esse a disegni scolpiti. Sono di una regolarità impressionante, che quasi si stenterebbe a credere che furono realizzate interamente a mano.


Tra due vasche di raccolta per le acque piovane, si trovano due camere, aventi un’apertura per ciascun lato (Nord, Sud, Est, Ovest). Ciascuna  custodisce uno di quei famosi linggam, le pietre (di forma fallica) donate dagli dei e che gli hindu venerano e coprono di doni e offerte. Anche noi salgariani abbiamo conosciuto un importante sasso: il salagram proveniente da un tempio dell’Assam e che si diceva contenesse un capello di Visnù.

I due qui conservati sono meno portatili di quello di Salgari. Mi ricordano un po’ gli stupa buddisti, seppure siano dipinti interamente di nero. La guida dice che compiere un giro in senso orario intorno alla camera del linggam è di buon augurio, perciò mi affretto a compiere la mia danza.


In fondo alla grotta è custodito il reperto migliore, il pezzo forte di questo museo naturale. Una statua imponente e grandiosa della Trimurti. Di fronte vi è naturalmente Shiva il dio distruttore, alla sua destra, unico con i baffi, Brahma il dio creatore e alla sua sinistra Visnù, il dio conservatore.

Essendo però Brahma e Visnù delle emanazioni di Shiva e, pur avendo delle identità ben distinte e definite, siano delle rappresentazioni di particolari caratteristiche del dio più importante del pantheon indiano, questa bellissima scultura viene appunto chiamata Mahesmurti Shiva.

È impossibile avvicinarsi troppo, data la vera distesa di fiori, scodelle di frutta e lampade votive che vengono quotidianamente posti ai piedi della statua.


Usciamo all’esterno, per girare intorno alla montagna e visitare le ultime cave, rimaste incompiute, e quelle dedicate all’alloggio dei religiosi. Le scimmie rincorrono i cani e i cani rincorrono le scimmie, sorvolati da bande di corvi gracchianti. L’obbiettivo che si disputano è sempre e solo un po’ di cibo che riescono a recuperare dai visitatori.

Assisto ad una scena comicissima. Un uomo, sedutosi sotto una pianta, apre la sua busta di plastica pronto a consumare il suo pasto. Ma un grosso macaco, rapido come il lampo, gli si affianca e afferra un lembo della busta, tirando con forza. L’uomo, sbigottito, non crede ai suoi occhi, non di meno è deciso a non capitolare senza strenua resistenza: tira anche lui la busta. Allora la scimmia, con la consueta agilità, si mette a saltellargli intorno, sempre con la busta avidamente stretta tra le mani, finché l’uomo perde la presa e con essa il pranzo.

Il macaco, tra le ingiurie del derubato, si ritira poco lontano cominciando ad aprire la carta stagnola che riveste i panini, divorandoli ingordamente.

Viene insidiata da un branco di cani selvaggi, ma il furbo quadrumane si mette in salvo su una ringhiera per consumare la refurtiva.

         Intorno alla montagna che ospita le cave, la jungla cresce indisturbata. Trovo due giovani banian, che però hanno già messo a terra una decina di rami. Sono proprio come li ha descritti Salgari, nodosi e imponenti. Guardando da una certa altezza, si possono intravedere di lontano le chiome di quelli più vecchi che appunto da soli formano una piccola foresta. 


Una malvagia scimmia prova ad insidiare anche me; basta mostrarle i denti per farla scappare. La guida mi rivela poi che non ce l’aveva con me, ma era nervosa per la presenza delle femmine.


Trovo nell’ultima cava un piedistallo di pietra, che prima doveva essere occupato da una statua di Shiva in meditazione. Mentre il legittimo occupante non c’è, mi faccio immortalare al suo posto.


Lasciamo la zona delle grotte e ci fermiamo per il pranzo nelle vicinanze. Il menù è quello tipico del Maharashtra, composto da Chicken Masala e roti, il sottile e squisito pane indiano. Ovviamente, data la piccantezza del piatto, non potevo non innaffiare tutto con l’ottima birra indiana, la Kingfisher, che è stata fedele compagna di tutta l’avventurosa vacanza.

 

GIORNO VII

 

Senz’altro questo è stato apparentemente il giorno meno indiano di tutti. Firoz ha insistito per portarmi ad una sorta di parco acquatico nei suburbi settentrionali della città, oltre la zona chiamata Malad.

Ci vuole molto tempo per arrivare, considerando anche il traffico smisurato, ed è necessaria anche una piccola traversata in barca.

Lasciata l’auto ho avuto subito l’impressione di esser giunto delle Sunderbunds del Gange. Per l’aria un odore nauseabondo, insopportabile, di pesce marcio e carcasse in putrefazione. Le acque su cui ci prepariamo a navigare sono nere ed impenetrabili ad ogni raggio del caldissimo sole. Tutto intorno si estendono pantani e banchi di fanghiglia grigiastra su cui si ergono grovigli di pallide mangrovie.

Nessuno direbbe che questo spettacolo poco salubre, nasconde un meraviglioso acquapark, poco dissimile dai nostri europei, ma reso unico e splendido dai dettagli squisitamente orientali.

Tra la folta vegetazione spunta altissima una guglia dorata: è la sommità di una pagoda buddista, prima e unica in tutta Mumbai. È un edificio imponente, con un diametro di oltre 90 metri e nessuna colonna! I lavori per il suo completamento sono ancora in corso, ma e comunque visitabile un vasto museo di quadri a olio, dedicati alla vita di Siddharta.

Nel complesso è un bel vedere, soprattutto al tramonto e, per un salgariano, non è difficile far correre il pensiero fino a Rajmangal e alla pagoda dei thugs.

Il giorno della partenza è arrivato e si sa “partire è un po’ morire”, ma per morire con dignità non mi sono certo chiuso in albergo, nemmeno oggi che è il mio compleanno!

Visiterò i Victoria Gardens, un’ampia zona di verde nella parte meridionale di Mumbai che ospita anche lo zoo cittadino.

Per la verità, pur essendo molto grande ed essendoci molte gabbie, sono pochissimi gli animali che decidono di mostrarsi ai visitatori che, anche nei giorni della settimana, affollano le biglietterie.

I felini non ci sono nemmeno, morti o trasferiti. Stesso destino per l’orso. Ma io le tigri le ho già viste, e ben da vicino!

Da lontano mi appaiono due grossi elefanti, intenti a consumare la loro razione di erba. Ma non chiedetemi se fossero merghee o coomareah! La gabbia attigua ospita invece un grosso e corazzato rinoceronte, privo di corno ma comunque imponente e minaccioso, con le placche robustissime e impenetrabili.


Nella vasta voliera ci sono meravigliosi uccelli, dai colori più sgargianti, provenienti da ogni parte del mondo, incluso un bellissimo calao del Borneo. Ci sono pappagalli africani e galli del centramerica, ibis egiziani e marabù indiani, dalle ali enormi e fasciate di nero.

Visito con un certo fastidio interiore il rettilario, le cui teche di vetro servono di dimora ai più velenosi serpenti del mondo: il cobra indiano, quello reale, il serpente a sonagli e il serpente del latte. Poco più in là sonnecchiano invece un enorme pitone indiano e suo cugino, il pitone delle rocce.

         Nello spazio più aperto del giardino, sono collocati gli erbivori. Rivedo, con interesse, gli axis pomellati e i grossi nilgò (nilgau) salgariani.


Effettivamente devono essere appetitosi e vista la loro mole, sono in grado di sfamare più di un cacciatore. Sembrano non fare molto caso ai visitatori, quasi che vi si siano abituati. Nemmeno un gruppetto di ragazzetti che tira loro dei sassolini sembra inquietarli troppo.

         Se non fosse per la tranquillità e la frescura regalata dal parco, unitamente ai suoi giardini meravigliosi, la gita ai Victoria Gardens sarebbe da considerarsi un fallimento: i coccodrilli immobili e semi-sotterrati nel fango, le scimmie nascoste nel folto degli alberi, gli ippopotami profondamente addormentati sott’acqua e le iene ronfanti nelle loro tane… ohé! Signori animali, siete a lavoro non è ora di dormire!

Io e Firoz ci soffermiamo a ridere della folla, composta perlopiù da bambini, che si accalca per entrare a vedere gli animali e che rimarranno un po’ delusi, se pure valga sempre il detto “venghino, signori venghino. Più gente entra più bestie si vedono!

Tra i giardini e il museo dedicato ai sovrani d’Inghiliterra Vittoria e Alberto, scorgo la statua di Elephanta, racchiusa da una cinta di metallo e guardata da due vecchi cannoni di bronzo.


Il mio viaggio termina qui. Mumbai mi ha letteralmente rapito, l’India stessa mi ha rapito col suo tanto decantato fascino, seppure io abbia visto una sola delle sue mille facce.

Si perché mai più di ora penso alla validità della storia dei cinque ciechi e dell’elefante:

 

…cinque ciechi si trovavano a discutere su come fosse fatto un elefante. Per stabilire chi di loro avesse ragione, si fecero portare dall’animale. Il primo, toccando la proboscide disse: “L’avevo detto, è come un serpente!”; il secondo avvicinandosi e toccando una zanna fece: “No, avevo ragione io: è come un palo!”; il terzo toccò la coda “Vi sbagliate tutti è come una corda!”. Il quarto tastò un fianco del pachiderma, poi disse: “E invece sono io che ho indovinato, l’elefante è come un muro!”. L’ultimo cieco ne sfiorò un’orecchia e concluse “Sciocchi, è come una vela!”…

 

Questo per dire che sono ben poche le persone che possono dire di conoscere veramente l’India, un paese capace di sorprenderti sempre e dappertutto. Ed io, come uno dei ciechi od un neonato barcollante che ha mosso i primi passi in questo vasto continente, mi porto dietro un ricordo profondo e indelebile.




Appunti di viaggio

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