«Il Borneo è il paese degli agguati e delle sorprese. Bada dove posi i piedi: ci possono essere dei serpenti dentro questa macchia». [Sandokan alla riscossa, 1907, Bemporad, Firenze]
I calamus tengono luogo, al Borneo e in tutte le altre isole della Malesia, delle liane, quantunque appartenenti alla famiglia delle palme. [Sandokan alla riscossa, 1907, Bemporad, Firenze]
A pochi metri dall’albero cominciava la grande foresta. [Sandokan alla riscossa, 1907, Bemporad, Firenze]
La foresta, in quel luogo, era formata per la maggior parte di piante gommifere e di piante parassite, intrecciate in modo da formare delle reti gigantesche […]. [Sandokan alla riscossa, 1907, Bemporad, Firenze]
Sotto le foglie secche si udivano di quando in quando dei sussurrii e dei sibili più o meno acuti, che annunciavano la presenza di non pochi rettili. [La riconquista di Mompracem, 1908, Bemporad, Firenze]
Quando sono arrivato nel Sarawak, mi sono sentito quasi a casa. Tutto ciò che il mio sguardo coglieva, aveva un qualcosa di familiare, compreso l’odore di umido, di vegetazione fradicia, che già avevo conosciuto in India. Infatti, tutto qui è bagnato e persino le sigarette acquistano un altro sapore.
Lascio l’aeroporto su un vecchio tassì, percorrendo la via di Miri-Bintulu in direzione sud. Man mano che ci allontaniamo dall’area urbana, la natura prende il sopravvento, invadendo perfino la strada.
Le periferie, come al solito, sono abitate dai più poveri, che costruiscono le loro case rialzate nel fitto della foresta o raccolte in veri kampong.
Tutto sommato però, non si avverte quel senso di miseria dilagante che ho veduto a Mumbai o nel Marocco meridionale: gli antichi sudditi del rajah bianco non stanno poi così male. O almeno questo è quello che si avverte attraverso il vetro di una berlina lanciata a 80 Km orari lungo una delle vie principali del Sarawak.
Il lungo nastro d’asfalto scorre ora tra brani di rigogliosissima jungla, tra cui svettano altissime palme e brilla il verde accesissimo dei banani.
Arriviamo presso l’albergo: niente di più che un agglomerato di palafitte avvolte dalla foresta cintata. Sistemo i bagagli in stanza ed esco a fare un giro, sorprendendomi a riconoscere l’uno e l’altro albero. Chi non ha mai udito i suoni di quelle foreste, poi, non può farsi un'idea di quale dolce musica suoni la natura a quelle latitudini. I volatili, nascosti tra le più alte chiome, schiamazzano rincorrendosi, mischiando i loro cicalecci a quelli di certe lucertole che fischiano come uccelli e, la notte, ai sibili di legioni di pipistrelli.
La flora e la fauna che Salgari ci ha sempre ben descritto, prendono forma concreta sotto i miei occhi, e la sensazione è incantevole.
La sera, che effettivamente segue il giorno senza crepuscolo, piove, secondo le regole del clima tropicale. Divido il letto con alcune formiche: sono innocue e questo mi basta, non vale la pena scacciarle.
Marciare nella jungla del Borneo è esattamente come diceva Salgari che, attraverso le parole di Yanez, dichiara come non sia un posto per gli europei.
Ho scelto di intraprendere subito il percorso tre, il trekking più lungo e impegnativo tra quelli offerti dal resort. Mi accompagna Samo, un ragazzo giavanese che aprirà la via.
Un caos di vegetali mi avvolge: bambù, palme, alberi di tek, arenghe saccarifere, pombo, rigorosamente stretti da solidi rotang. Una foresta davvero impenetrabile, resa ancor più impervia dai numerosi ostacoli terreni; tronchi caduti per decrepitezza o marcitura precoce, scivoli di fango, pantani melmosi (in uno di essi ci sono anche finito dentro), ruscelli da guadare, si frappongono dinanzi a me.
Si suda parecchio e da ogni albero a cui mi appoggio, vien giù una vera cascata d’acqua.
Non è stato facile arrivare alla fine dei tre chilometri, con una sola pausa a metà del tragitto. Mi guardavo attorno, pronto a cogliere ogni segnale che indicasse la presenza di serpenti, che fortunatamente non ho incontrato. Il vero problema sono state le sanguisughe che si aggrappavano assetate ai miei vestiti: devo averne raccolte un buon numero quando abbiamo attraversato quella folta macchia di felci e di altissime erbe.
Qualche scimmia, senza mostrarsi, si è divertita a scagliare sopra di noi rami o i grossi frutti del durion, scappando poi con buffi ululati. Intorno a me volano strani insetti, tutti neri, col corpo simile a quello dei grilli e le ali invece piccole, in forma di petalo di violetta.
Attraversare la jungla è una di quelle esperienze che definirei “a effetto ritardato”. Il senso di appagamento, di aver fatto qualcosa di divertente, arriva più tardi, quando esausto rientri alla base per lavarti e concederti qualche ora di riposo.
Nel pomeriggio esco per una cavalcata. Hanno solo un poney, uno stalloncino sauro alto circa 1.50 m al garrese. Prima di me c’è un gruppo di cinesi che vogliono montare in sella. Sono sciocchi, salgono da un panchetto bardati con cap e infradito e non hanno nessuna pratica. Il cavallo (che viene portato per le redini da un inserviente) lo sente e rifiuta di avanzare. La sua riottosità è la sua rovina. L’inserviente inizia a tirarlo con forza, neanche avesse a che fare con un mulo dei Pirenei. A lui se n’è aggiunto un altro che con un ombrello gli percuote i posteriori. Fortunatamente il cavallo riesce ad appioppare un calcio a quello stolto, che Dio solo sa come non ne ebbe il ginocchio rotto. I cinesi ridono a crepapelle davanti a quell’episodio, mentre io mi faccio più cupo. Povera bestia, penso, che deve subire questo genere di maltrattamenti ogni volta che qualche idiota vuol montargli in groppa.
È il mio turno (i cinesi si accontentano di un rondò del piazzale di parcheggio). Con un calcio scosto la panca che stavano preparando per me, poi dico all’inserviente: «Dammi le redini», aggiungendo poi nella mia testa: «facciamo vedere a questa gente come cavalcano gli italiani!»
Il personale dell’albergo è indeciso sul da farsi, evidentemente nessuno prima di me ha cavalcato “veramente” quel poney. Uno tenta di porgermi un cap, che rifiuto con sdegno. Salgo in sella, raccogliendo le redini. Il cavallo, sentendosi libero dalla solita “lunghina”, prende il galoppo verso il suo box. Con due strappate lo arresto e dopo molti tentativi lo metto al passo. Non risponde agli aiuti, evidentemente non li conosce, ed anzi ai colpi di tallone più forti, gira la testa per mordermi il piede. Ma non gliene faccio una colpa: manca solo di addestramento e di cure, non di disciplina.
Penso che nei prossimi giorni tornerò a trovarlo, tentando di guadagnare la sua fiducia e di montarlo con più successo.
Questa mattina ho potuto apprezzare meglio la reale estensione di questo luogo, grazie ad un'ispezione generale condotta da Kelvin, un simpaticissimo ragazzo che al più formale sir, preferisce chiamarmi, bro (diminutivo di brother, ossia fratello).
L’edificio principale, dove si trovano tutti i servizi e dove alloggio anche io, ha un’architettura che ricorda molto una vecchia villa coloniale britannica, a più livelli, dipinta d’azzurro e incastonata tra gli avvallamenti di numerose colline.
Più in basso vi sono le palafitte e tutto intorno jungle sconfinate. Sul fiume, in cui nuotano i maggiori pesci del Sarawak, hanno realizzato giochi e attrazioni definiti pomposamente “avventurosi”, che piaceranno ai cinesi ma non fanno proprio per me.
Camminando lungo pontoni rialzati in mezzo alla foresta (su cui lo confesso, mi sono sentito un po’ come Yanez tra i villaggi di Mompracem), si giunge ad una bellissima cascata, uno di quegli angoli di terra che sono ben degni di finire in cartolina.
La pista continua e si passa davanti ad una gran gabbia che ospita una specie di babbuini. I locali le chiamano Brooke ma, dopo aver chiesto, non sono riuscito a sapere se il nome ha qualche attinenza con quello dei rajah.
Più oltre vi è una fattoria domestica con galline grosse come tacchini, bellissimi pavoni e pecore già “nude”. Pascolano e razzolano liberamente attraverso una vasta piantagione di palme coccottiere. Proseguiamo il viaggio sul fiume, a bordo di una larga e lenta barcaccia a doppio scafo, molto simile ad una chiatta da trasporto. Tra le acque melmose e giallastre, spiccano i colori di alcuni pesci, grossi come i nostri cefali, che vanno dal rosa, all’arancione, al rosso accesso.
L’area coperta da questo resort deve assommare a parecchie centinaia di chilometri quadrati.
Sono tornato a trovare Boy, il cavallo. L’ho accarezzato ripetutamente, sussurrandogli una vecchia canzone e si è calmato. Voglio provare a farlo camminare un po’ prima di montarlo di nuovo.
Merita un accenno il cibo, che in generale è buono. Domina assolutamente il riso, che tiene il luogo del nostro pane e della nostra pasta. Quando ho detto ad uno del posto che in Italia si mangia riso una o due volte al mese, mi ha risposto che qui, con quella frequenza, molta gente morirebbe di fame.
Al riso si accompagnano intingoli di carne di manzo o di pollo, germogli di bambù e piselli cucinati con tutto il baccello. Conclude i pasti una vasta rassegna di frutta: cocomero, meravigliosi mangostani, banane (più piccole delle nostre, ma più nutrienti), pombo, nepelium o rambutan, carambole succosissime, maracuja dolcissimi e certe specie di frutta violacee, con semi neri, dal sapore acquoso, che tingono orribilmente le dita e le labbra (e per chi come me li ha, anche i baffi) di viola. Sono chiamati frutta di drago, o pitaya e chiusi rassomigliano a palle infuocate. Sono prodotti da una varietà di cactus e se ne trovano lungo tutti i tropici, dall’Oriente fino all’America centrale.
Da bere, ahimè, solo dei succhi di frutta o dell’acqua. Tutt’al più, a cena, compare qualche bicchiere di tuwak, il vinello di palma che è difficile da mandar giù.
Non ho resistito e ho preso rapidamente il mio partito per attraversare la jungla. Calzati gli alti e robusti stivali, munito di bastone (ufficialmente per appoggiarmi nelle zone scivolose, ma in realtà era la mia unica arma contro i serpenti), di coltello, di bussola e di borraccia, mi sono addentrato sotto le foreste con il solito spirito salgariano che ha sempre contraddistinto i miei viaggi.
Ho proceduto per quanto possibile sul sentiero, controllando di frequente la mia rotta per non sconfinare poi, trovato un ruscello ne ho seguito il corso, facendo parecchie soste per tergermi il sudore e per tendere gli orecchi.
La jungla è tutta un suono: sibili, fischi, stridii, gemiti, ululati e in altre occasioni metterebbe angoscia al più ardito tra gli avventurieri.
Sorprendo due grossi pitoni sonnecchiare su un ramo a mezz’aria, ma mi guardo bene anche solo di avvicinarmi.
Avanzo ancora lungo il rivolo, sbucando a monte della cascata: da un’altura scorgo il sentiero pontato fatto al mattino. Provo a scendere, ma il terreno è troppo ripido e scivoloso. Vi sono dei tronchi da cui calarsi, ma non mi fido né della mia agilità, né di quello che potrei incontrare lungo la discesa.
Scorgo a qualche passo da me un lungo festone di rotang che, avvolgendosi intorno ad un altissimo tek, tuffa poi l’altra estremità dell’acqua. Ne saggio la resistenza. Sì, su può fare. Ora cappello, bastone e borraccia mi imbarazzano parecchio, ma trovato il giusto assetto riesco a muovermi. Mi passo il rotang tra le gambe e inizio a scendere. È faticoso, ma dopo poco sono giù. Erano solo un paio di metri, ma non di meno è stata un’avventura!
L’acqua del fiume è fredda, ma mi arriva appena alle cosce. Attraverso il limaccioso fondale, non senza scivoloni e sono dall’altra parte. Mi guardo le gambe, sembra che mi abbiano crivellato. Quattro o cinque chiazze di sangue mi macchiano i calzoni. Sono ancora loro, le maledette sanguisughe!
Con l’accendino, rimasto asciutto come in ogni miglior racconto (l’avevo nel taschino della camicia), me ne libero e proseguo fino all’albergo.
La gente del luogo è piacevole e cordiale. Saluta e sorride sempre volentieri, a differenza di noi europei. In particolare molti mi osservano con curiosità: forse per i baffi e i capelli lunghi, forse per l’abbigliamento, o ancora per il cappello. Credo che gli abitanti di Sarawak abbiano più fotografie del sottoscritto di quante non ne abbia io. Se avessi chiesto dieci ringgit ad ogni persona che si è voluta fare immortalare con me, mi sarei tranquillamente pagato delle ottime cene.
Mi chiedono da dove vengo, se mi è piaciuto il Borneo e se sono sincero quando rispondo «sì». Ah! Se sapessero quale posto speciale occupa nel mio cuore questo paese!
Parlo spesso di Salgari con i ragazzi dell’albergo e ne sono affascinati. Intreccio il discorso con quelli sui dayaki, su James Brooke, sulla flora e fauna locali e sui costumi dei popoli malesi. Mi fa sorridere soprattutto come le parole in lingua malese siano straordinariamente identiche, nei romanzi come nelle loro conversazioni.
Se avessi conosciuto la reale condizione del “Lambir Hill National Park”, non avrei cercato tanto disperatamente la jungla estrema: l’avevo a poche miglia di distanza.
Situato a 30 Km a sud di Miri, il parco copre un’area di circa 7000 ettari, attorno ad un grosso sistema di cascate e fiumi come il Lepoh, il Letik, il Liam e il Liban. Sono però 7000 ettari di foresta quasi inaccessibile, intricata, soffocante. Il governo ha posto all’ingresso un bungalow di legno a servire di cassa e l’ha nominato “parco nazionale”. Che strana idea hanno dei parchi gli orientali! O forse sono io che associo a quel nome l’idea (troppo occidentale) di un giardino ordinato?
Fatto sta che si paga per poi essere alla mercé di Dio. È scritto ben chiaro che, a parte esigere il rispetto di ogni buona norma per le passeggiate boschive, viene declinata qualsiasi responsabilità per danni e lesioni, materiali o morali, che potrebbero occorrere una volta varcato l’ingresso, qualsiasi sia l’attività eseguita (nuoto, trekking, bird-watching, …).
Entro con solo una piccola mappa e il mio equipaggiamento da jungla, che ho già descritto.
Il sentiero, indicato solamente con un po’ di vernice sui tronchi, si snoda essenzialmente verso ovest. Do un occhio al sole ed uno alla bussola e mi incammino.
Raggiungo prima la vicina cascata di Latak, uno spettacolo di infinita bellezza, alta quasi 25 m. Intorno a me vi è parecchia gente venuta a prendere un bagno. Scorgo anche i primi europei da quando sono in Malesia.
Torno sul sentiero principale e mi trovo assolutamente solo. Davanti a me una ripidissima salita di pietra, con gli scalini irregolari, stretti, alti da 20 cm a quasi 80, molto simili a quelli di certi templi maya o indù. Sono nel silenzio e nell’ombra più totale. Il solito concerto della jungla non fa che angosciarmi di più. Si può essere coraggiosi fino alla pazzia, ma certe situazioni gettano tali inquietudini da impensierire anche i più intrepidi escursionisti.
Si rischia di cadere facilmente preda della soggezione e della paura che, per esperienza personale, definirei ora come vedere il pericolo con la testa e non con gli occhi.
Dopo quell’arrampicata faticosissima, riprendo la marcia, battendo ogni radice con il mio bastone. Una grossa lucertola, lunga almeno due piedi, mi fa schizzare il cuore in gola. Ma lei è più spaventata di me e fugge in un lampo.
Il cammino si fa più aspro: attraverso pericolanti ponti sospesi, salendo tronchi abbattuti o scivolando tra gli avvallamenti creati dalle radici, giungo a metà del percorso. Sono accaldato, madido di sudore e non ho più un millimetro di camicia che sia asciutto. Raggiungo un’altra cascata, credo sia quella di Nibong, un rigagnolo in confronto all’altra, ma il colpo d’occhio è ammirabile. Faccio una sosta per riposare e fumare qualche sigaretta. Per Giove! Non è da tutti poter dire di aver fumato nel bel mezzo della jungla di Sarawak!
Alcuni scatti e sono di nuovo in cammino. Sorprendo una frotta di minuscole e laboriosissime formiche. Saranno certamente molti miliardi e formano un nastro lunghissimo, di cui non scorgo gli estremi.
Il sentiero si è fatto più pianeggiante, sto procedendo tra due colline. Sono già due ore e mezza che cammino, sono spossato e la mia borraccia è vuota. Cosa darei per un sorso di birra fresca ora!
Alla cascata di Pancur prendo dell’acqua e faccio il punto. Ho percorso sette chilometri e altrettanti dovrò farne per tornare indietro. Vedo in lontananza il Lambir, un’altura che spinge la sua cima a 465 m, termine del percorso. La gamba sinistra inizia però a darmi delle noie, così decido di non tentare la scalata e di dirigermi verso l’uscita.
Per sopravvivere alla jungla, diceva qualcuno, non bisogna mai spingersi oltre le proprie possibilità.
Questa mattina ho preso il kayak e sono andato a fare un giro sul fiume. Vedere la jungla da un’altra prospettiva è stato divertente e senz’altro nuovo. L’acqua è calma e con poche battute si avanza con rapidità. I pesci rossi e rosa che avevo già veduti, nuotano senza paura intorno alla mia imbarcazione, mentre grosse e ripugnanti lucertole lasciano i loro rifugi al sole per gettarsi in acqua o scomparire sotto le boscaglie.
Sono tornato ancora da Boy. Gli ho fatto mettere la testiera e le briglie, ma non la sella. Oggi non c’è molta confusione e ho potuto lavorarlo meglio. Al passo cammina tranquillo e tento di associare al movimento il comando vocale e un colpetto di bastone sul fianco. Superato il primo spavento, mi segue senza rifiuti, e non c’è bisogno di tirarlo in bocca.
Messa la sella faccio un altro giro, standogli di fianco questa volta. Tutto va bene e così monto. Lo metto al passo, risponde ai talloni e alle redini. Ha oramai assimilato certe meccaniche come un animale da circo però, e tende sempre a fermarsi in corrispondenza del panchetto usato come saliscendi o della sua stalla. Con quattro colpetti e una strappata laterale, si rimette però in cammino.
Marcia tranquillo, è fatta! Ho conquistato la sua fiducia e né sgroppa né scalcia. Solo quando lo porto sulla pista meridionale si volta e prende un galoppo inarrestabile.
Ma non si può voler di più da un cavallo senza addestramento e in soli due giorni.
Il mio lavoro mi è valso il titolo, datomi dal personale dell’albergo, di horse trainer: così si rivolgevano nei miei confronti tutti quanti, ospiti inclusi.
Ho lasciato detto che sarebbe opportuno pareggiare gli zoccoli al cavallo, che mi paiono troppo lunghi, e consigliato al personale che vi lavora, di spronarlo di fianco e non da dietro, dove il cavallo non vede ed ha paura: ho suggerito anche di non tirarlo violentemente in avanti, per non rovinargli completamente la bocca, ma di spingere piuttosto verso il basso. Povero amico! Quale sarà la tua sorte quando me ne sarò andato? Suppongo che ricomincerà la tua agonia.
Dopo pranzo, mi reco a visitare un kampong dayako. Dista pochi chilometri dal resort, nel folto di grandi appezzamenti agricoli coltivati a riso o palme da olio, da cocco e bananiere.
Si compone di tre grandissimi e lunghissimi edifici, dove vivono quasi 65 persone a costruzione. Nelle ore più calde del pomeriggio i dayaki laut (di mare) o più comunemente iban, si riposano o sono impegnati nel lavoro quotidiano: intrecciano tappeti e grossi panieri con fibre di rotang, o separano il riso appena raccolto da altri componenti estranei.
Mi sorridono tutti, specialmente i vecchi, che qualche testa devono averla tagliata, essendo antichi guerrieri come dimostrano i numerosi tatuaggi sui loro corpi seminudi. Chiedono alla mia guida da dove vengo, poi mi fissano e gridano sorridendo «Jesus Christ!».
Per loro (tutti convertiti a un fervente cristianesimo) assomiglio a Nostro Signore.
Buono! Non si sognerebbero mai di prendere la mia tesa. O forse sì? Per Giove, completerebbero una bella collezione con un cranio italiano! Un vero pezzo unico.
Invece sono tutti cordialissimi. Mi salutano come se mi conoscessero da una vita e mi offrono grandi tazze di tuwak.
Guardano con interesse la bandiera di Mompracem che mi sono portato appresso. Spiego loro, attraverso la mia guida-interprete, la storia di Sandokan e delle Tigri della Malesia. Quando dico loro che fra quelle bande di terribili guerrieri c’erano anche i loro avi, mi mostrano finalmente sei o sette teschi ormai imbruniti ma perfettamente conservati, racchiusi in un reticolato di rotang e filamenti di palma.
Non chiedo nemmeno di poterli fotografare, e nemmeno ho fatto fotografie agli abitanti: so che a loro da fastidio.
La sera Kelvin, con cui ho stretto una grande amicizia fraterna, mi promette un piacevole diversivo. Si è offerto di portarmi in città e, Dio lo benedica, di farmi bere una birra. A noi si è aggiunta un’altra ragazza dello staff, che studia all’università ma sta facendo praticantato qui al resort. Visito quindi Miri by night, dominata dalle mille luci dei suoi centri commerciali.
Ho finalmente un incontro ravvicinato con i frutti del durion, vi è un banco di vendita presso cui ci fermiamo. Posso ora confermare quanto abbiamo imparato leggendo Salgari: l’odore del durion è quanto di più ributtante si possa immaginare. Sembra di avere sotto il naso delle uova marce o della carne putrida, con vaghi sentori di gas, e questo poco incoraggiante profumo si avverte anche a frutto chiuso. Vinto con non poca fatica, l’istinto di vomitare, ne assaggio un boccone. Il sapore è dolcissimo e ricorda quello degli ananassi, delle ciliegie e delle pesche mature. Chi direbbe che sotto quell’orrendo puzzo si nasconda uno dei frutti più squisiti della terra?
Forse non a torto i malesi lo chiamano “il re dei frutti” e gli attribuiscono proprietà salutari, oltre che un prezzo elevatissimo.
Lasciamo i durion e ci fermiamo presso un locale dalle sembianze vagamente italiane, a cominciare dal nome, Al fresco. Finalmente, con mia somma gioia, dopo una settimana di acqua e di succhi, mi gusto due meravigliose birre ghiacciate, prodotte qui, dal nome veramente attraente: Tiger.
È stata una delle serate più belle della mia vita, che hanno reso indimenticabile questo viaggio. Abbiamo riso e scherzato come i più vecchi compagni di scuola, mentre solo sei giorni prima ignoravamo l’esistenza l’uno dell’altro.
Kelvin si diverte molto quando cerco di insegnargli qualche parola in italiano: amico, amicizia, fratello, come stai?, tutto ok!.
L’indomani mattina sto male. È il cuore a sanguinare all’idea di lasciare per sempre questi luoghi e gli amici. Se vale sempre la massima “partire è un po’ morire”, io aggiungerò allora che non v’è morte senza sofferenza. Mi ha preso un’insolita malinconia, come non mi era mai successo nei miei viaggi precedenti e passo la mattinata a piangere come un fanciullo. Non credevo di essere ancora capace di farlo.
Come è triste dirsi addio, come è triste scrivere in fondo alla pagina FINE.
Cap. Fabio Negro
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