L’eroina di Port Arthur. Avventure russo-giapponesi fu pubblicato in prima edizione a Torino, dall’editore Speirani, nel 1904, con il consueto pseudonimo di cap. Guido Altieri (il più frequentemente utilizzato fra gli pseudonimi cui Emilio Salgari faceva ricorso per aggirare le pastoie contrattuali che lo legavano in quegli anni all’editore Antonio Donath di Genova)[1] e con illustrazioni di Enrico Canova. Un capitolo del romanzo (XIV: La fuga di Shima) era già stato pubblicato il 23 giugno 1904 sul n. 25 de «Il Giovedì», il periodico pubblicato dagli stessi Speirani. Il nome di Emilio Salgari comparve soltanto a partire dalla ristampa della Casa Editrice Italiana Quattrini di Firenze nel 1911, come n. 20 dell’edizione formato album del «Romanzo d’avventure», pubblicata a beneficio degli orfani dello sventurato scrittore. Nella ristampa della casa editrice Sonzogno (Milano, 1924) e quindi varie altre volte, il romanzo è stato invece presentato con il titolo apocrifo La naufragatrice (anche nella «Collana popolare Salgari» pubblicata dalla casa editrice Carroccio di Milano fra il 1947 e il 1949) e sottoposto a diversi tagli e ad arbitrari mutamenti (questi ultimi opera del più giovane dei quattro figli dello scrittore, Omar Salgari, non sempre fedele e ligio alla memoria dell’illustre genitore), fino al 1990, anno in cui comparve l’edizione completa, accuratamente restaurata, corretta (e finalmente riappropriatasi del giusto titolo) de L’eroina di Port Arthur, a cura di Felice Pozzo e Giovanna Viglongo, pubblicata a Torino dalla casa editrice Viglongo quale n. 1 della collana «Salgari & Co.».[2]
Questa, a grandi linee, la trama del romanzo. La guerra tra la Russia e il Giappone sta per scoppiare. Alla vigilia di questo scontro, Boris Siloff, un giovane ufficiale della marina imperiale russa, sta per sposare la bellissima giapponese Shima, figlia del potente “daimio” Foyama, contro il parere dello stesso, che nutre serie perplessità sulle intenzioni di Boris, che ormai, ai suoi occhi, si configura come un rappresentante del detestato nemico. Anche il fratello di Shima, Sakia, ufficiale della marina nipponica, mostra la propria ostilità nei confronti delle nozze della sorella. Shima, che trova inspiegabile questo atteggiamento da parte della propria famiglia, difende con fervore i propri sentimenti, pur temendo qualcosa nel suo animo. L’arrivo del tradizionale regalo di nozze da parte dello sposo sembrerebbe avvalorare le convinzioni della fanciulla, ma il dono in questione, un prezioso braccialetto, è accompagnato da un messaggio d’addio da parte di Boris, nel quale l’ufficiale russo spiega alla sua promessa sposa (o meglio, ex-promessa sposa) come l’evolversi degli eventi politici e diplomatici fra la Russia e il Giappone lo costringa a una dolorosa rinuncia. La realtà dei fatti, però, è ben diversa. Boris, infatti, si è innamorato di un’altra donna, Naga, una gheisha (Salgari scrive erroneamente ghesha) anch’essa bellissima e fiera come Shima. Sakia, venuto a conoscenza della cosa, cerca di convincere l’incredula sorella a verificare la realtà dei fatti. Intanto Foyama, ligio ai principi e ai rituali d’onore giapponesi, si uccide, facendo hara-kiri, per far ricadere la vergogna e il disprezzo sull’odiato Boris. Fra l’altro, prima di uccidersi, Foyama raccomanda ai propri figli di avvisare Boris di ciò che è accaduto, in modo che, per lavare l’onta cadutagli addosso, egli accetti la sfida a duello che Sakia gli lancerà. Ma l’ufficiale russo, che ormai non è più in grado di nascondere e di controllare i propri sentimenti, rifiuta vilmente la sfida, prende tempo e fugge a Yokoama con l’amata Naga. Sulla salma del padre Shima e Sakia giurano vendetta e si imbarcano sulla Morioka, una torpediniera della flotta imperiale giapponese comandata dallo stesso Sakia e lanciata all’attacco della base russa di Port Arthur. Shima, sbarcata in segreto a Yokoama col compito di scoprire la dislocazione delle mine disseminate dai russi, ha un colloquio chiarificatore con Naga, che si convince dell’ipocrisia e della bassezza di Boris, visto ormai da tutti come “il nemico”. Nella battaglia navale di Port Arthur, Sakia e Boris perdono la vita. Caduti tutti i presupposti della vendetta con la morte dell’odiato Boris, Shima e Naga si alleano in un patto di morte. Esse, infatti, penetrate clandestinamente nella potente corazzata russa Petropawlowsk, riescono a dare fuoco alle polveri, facendo saltare in aria la nave con tutto il suo equipaggio e sublimano così la propria esistenza immolandosi in nome della patria.
Nel romanzo, fra l’altro, possono essere individuate due fra le più diffuse e significative costanti tematiche della narrativa salgariana. La prima di esse è rappresentata dal motivo dell’amore fra un uomo e una donna appartenenti a differenti continenti, linguaggi, paesi, razze e tradizioni (amore, questo, spesso contrastato dalle rispettive famiglie), qui costituito dall’amore (che però ben presto svanirà, per lasciar posto al forse più nobile amor di patria) fra la giapponese Shima e il russo Boris. Solo per limitarmi ad alcuni esempi fra i più noti e significativi, si pensi innanzitutto alle più o meno felici e durature unioni fra Sandokan e Marianna Guillonk, fra Tremal-Naik e Ada Corishant, fra Yanez e Surama, e così via, nel “Ciclo dei pirati della Malesia” (da Le tigri di Mompracem a I misteri della Jungla nera, da Il «Re del mare» al tardo – e in parte apocrifo – La rivincita di Yanez); a Tay-See e José Blancos ne La Rosa del Dong-Giang (Livorno, Belforte, 1897, già apparso, col titolo Tay-See e con un diverso finale, in 28 puntate sul quotidiano «La Nuova Arena» di Verona, 15 settembre - 12 ottobre 1883);[3] ad Antao Carvalho e Urada ne La Costa d’Avorio (Genova, Donath, 1898); al medico padovano Roberto Galeno e la tenera siamese Len-Pra ne La città del Re Lebbroso (Genova, Donath, 1904); a Michele Cernazé e Afza in Sull’Atlante (Firenze, Bemporad, 1907); e, soprattutto, all’italiana Eleonora d’Eboli (il Capitan Tempesta) e al turco Muley-El-Kadel (il Leone di Damasco) nei due romanzi del breve “Ciclo del Leone di Damasco”, appunto Il Capitan Tempesta (Genova, Donath, 1905) e Il Leone di Damasco (Firenze, Bemporad, 1910).[4]
Sufficientemente attestata è altresì la seconda di tali tematiche, quella, cioè, riguardante la rivalità in amore di due donne per lo stesso uomo (rivalità che comunque, nel caso de L’eroina di Port Arthur si tramuterà ben presto – come si è visto – in complicità e alleanza, nel comune sacrificio per la patria). È, questo riguardante l’antagonismo fra due donne per uno stesso uomo, un motivo che assume varie sfumature e diverse gradazioni, dal nostalgico e nobile rimpianto di Amina, principessa algerina che sacrifica il proprio amore per il siciliano barone Carlo di Sant’Elmo, cavaliere di Malta, aiutandolo a liberare la propria fidanzata Ida di Santafiora prigioniera nell’harem di Algeri, ne Le pantere d’Algeri (Genova, Donath, 1903),[5] all’abnegazione di Nefer per Mirinri e Nitokri ne Le figlie dei Faraoni (Genova, Donath, 1905),[6] fino alla sete di vendetta e all’odio (che non si fermerebbero neanche di fronte all’infanticidio) dimostrati dalla perfida Haradja per Muley-El-Kadel e la sua innamorata (e poi sua sposa) Eleonora d’Eboli, nei due già ricordati romanzi del “Ciclo del Leone di Damasco”. E non si dimentichi poi Romero Ruiz, giovane piantatore meticcio affiliato agli insorti di Manila contro la potenza ispanica, che ama, riamato, la bella spagnola Teresita, soprannominata la “Perla di Manilla” (secondo la caratteristica ma erronea grafia salgariana), figlia del maggiore d’Alcazar, capo delle truppe di stanza nella capitale e spietato repressore dei ribelli, ma che è vanamente amato, altresì, dalla dolce Than-Kiù (detta il “Fiore delle perle”), sorella del prode Hang-Tu, capo dei ribelli e delle associazioni segrete del “Lotus Bianco”, del “Giglio d’Acqua” e del “Tien-Tai”, nonché grande amico dello stesso Romero, nei due romanzi “di guerriglia” costituenti il breve “Ciclo delle Filippine”, cioè i già menzionati Le stragi delle Filippine (Genova, Donath, 1897) e Il Fiore delle perle (ivi, 1901).
Per tornare a L’eroina di Port Arthur, in occasione della recente ristampa del romanzo pubblicata dalla Fabbri nel 2003, Cristina Cristante ha innanzitutto messo in rilievo la varietà e la profondità delle conoscenze geografiche, storiche e culturali dimostrate da Salgari in questo suo unico romanzo giapponese, attraverso «un’immersione nei costumi e nello stile di vita giapponesi (vestiti di seta, porcellane, rituali misteriosi)» e «un ulteriore tentativo di impadronirsi rapidamente di una lingua i cui suoni esotici rendono più meraviglioso e più credibile lo scenario in cui l’autore ambienta il romanzo»[7]; e ha quindi notato che «avvincenti, e fondati su attendibili cronache, sono i capitoli finali in cui, con una non comune bravura, Emilio Salgari descrive i preparativi allo scontro tra le flotte nemiche e la successiva battaglia dove, rispetto ad altri romanzi, la fanno da padrone le nuove meravigliose conquiste della tecnica nel campo degli armamenti: i motori delle navi, la precisione del tiro degli obici e le meraviglie compiute dai siluri che silenziosamente colpiscono e affondano le navi avversarie. Una scrittura moderna ed efficace che rende epica l’impresa dei giapponesi, verso i quali sembra indirizzarsi la simpatia del popolare scrittore veronese, sempre avverso all’assolutistica monarchia russa».[8]
Armando Bisanti
NOTE:
[1] Cfr. F. Pozzo, Nella giungla degli pseudonimi salgariani, in «Quaderni di Storia» 45 (1997), pp. 155-167; E. Salgari (cap. Guido Altieri), I racconti della «Bibliotechina Aurea Illustrata» dell’editore Biondo di Palermo, a cura di M. Tropea, III voll., Torino, Viglongo, 1999-2002 (su cui mi sono ampiamente intrattenuto ne Il ritorno di Emilio Salgari, in «Critica Letteraria» 32,2 [2004], pp. 363-397); C. Gallo - F. Pozzo, La breve parabola letteraria del capitano Guido Altieri, in E. Salgari (cap. Guido Altieri), I racconti della «Bibliotechina Aurea Illustrata», vol. I, cit., pp. XLIX-LVI.
[2] Per maggiori notizie sul romanzo e sulle sue varie edizioni, si rinvia a V. Sarti, Nuova bibliografia salgariana, Torino, Pignatone, 19942, p.87; e soprattutto all’introduzione di F. Pozzo (L’«Eroina di Port Arthur» ovvero «La naufragatrice») a E. Salgari, L’eroina di Port Arthur. Avventure russo-giapponesi e altri racconti (Il tamburino giapponese, Janko il torpediniere, I banditi della Manciuria, I lottatori giapponesi, Le geishe giapponesi), a cura di F. Pozzo e G. Viglongo, Torino, Viglongo, 1990, pp. XIII-XXIV.
[3] Cfr. E. Salgari, Tay-See e La Rosa del Dong-Giang, a cura di G.P. Marchi, Padova, Antenore, 1994.
[4] Di questo tòpos si impadroniranno anche gli epigoni di Salgari. Per fare un solo esempio, ne Gli abbandonati del «Galveston» di Luigi Motta (pubblicato a Milano, dall’editore Celli, nel 1903) nasce un tenero, puro ed impossibile amore tra Netulla, la figlia del protagonista conte De Aquili, e il suo salvatore, il ribelle del Kandy Sun-Ta-Pao, che morirà da eroe alla fine del romanzo (cfr. L. Motta, Gli abbandonati del «Galveston», rist. anast., Cavallermaggiore, Gribaudo, 1994).
[5] Di questo romanzo salgariano disponiamo di una recente ristampa: E. Salgari, Le pantere d’Algeri. Il romanzo di Salgari ispirato dall’invasione barbaresca di Carloforte (1798), a cura di G. Schiaffino [e altri], Genova, Feguagiska Studios Edizioni, 2007.
[6] Cfr. E. Salgari, Le figlie dei Faraoni, a cura di C. Daglio, G. Viglongo e P. Pallottino, Torino, Viglongo, 1991.
[7] C. Cristante, L’amore e la guerra, in E. Salgari, L’eroina di Port Arthur, Milano, Fabbri, 2003, p. 5.
[8] Ivi, p. 6.
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