La prima edizione del romanzo fu pubblicata a Milano, dai fratelli Treves, nel 1898, con illustrazioni di Antonio Bonamore e Gino De Bini. Esso, comunque, era già apparso nel «Giornale dei fanciulli» di Milano in 24 puntate dal 2 luglio al 10 dicembre 1896, e poi in «Le gaie giornate. Letture illustrate per i fanciulli raccolte da Cordelia e A. Tedeschi» nel 1897, riviste edite entrambe sempre dai Treves.
La Città dell’oro si ispira alla celebre leggenda dell’“Eldorado”, nota a molte tradizioni narrative popolari e letterarie. Narra infatti la leggenda (almeno in una delle sue più celebri e diffuse versioni) che gli Incas, incalzati dall’inarrestabile e sanguinosa avanzata dei conquistadores spagnoli guidati da Francisco Pizarro, abbiano fondato, nelle foreste dell’alto Orenoco, una città costruita interamente d’oro. Ma se si tratti di una leggenda ovvero della realtà è tutto da dimostrare. È questo ciò che vorrebbero scoprire, attratti sia dalla comprensibile cupidigia per ricchezze che si dicono favolose e meravigliose, sia dal più nobile e disinteressato gusto per l’avventura, don Raffaele de Camargua, suo cugino Alonzo e il medico Velasco, i tre protagonisti del romanzo (che, come altri dello scrittore veronese, segnatamente quelli maggiormente diretti ad un pubblico di adolescenti, è sostanzialmente privo di figure femminili di rilievo). Ma, come sempre accade in questo genere di romanzi salgariani, le insidie che si frappongono sul loro cammino sono molteplici, date sia dalla Natura, incontaminata e pullulante di belve feroci, sia dagli uomini, gli ultimi discendenti degli Incas che ancora abitano quelle regioni inesplorate e inviolate.
In Amazzonia, l’emozione di una caccia al giaguaro, voluta dal ricco piantatore don Raffaele de Camargua (ex ufficiale spagnolo, ora possessore di una piantagione di canna da zucchero) in onore del cugino Alonzo (un ragazzo appena diciottenne, che egli ama come un figlio), potrebbe costare la vita a quest’ultimo se, in provvidenziale e insperato salvamento, non intervenisse un misterioso ed enigmatico indio, Yaruri. La naturale gratitudine porta i due cugini a voler compensare con dell’oro l’ignoto salvatore ma costui, sdegnosamente, oppone loro un secco rifiuto. Quale contropartita per aver salvato Alonzo dagli artigli del giaguaro, Yaruri promette a don Raffaele e allo stesso Alonzo una ingente quantità del nobile metallo, a condizione che essi lo riconducano presso la sua tribù, nella mitica e antichissima città di Manoa, nella foresta amazzonica. Colpiti da tale rivelazione e nella speranza di aver scoperto il leggendario “Eldorado” e positivamente consigliati dal dottor Velasco, un medico loro amico (e, come sempre in questi casi, provvisto di una cultura sterminata, una vera e propria enciclopedia vivente) disposto ad accompagnarli nella difficile spedizione, don Raffaele e Alonzo decidono di seguire Yaruri. La meta sarà raggiunta sopportando i fastidiosi e faticosi disagi della foresta amazzonica, lungo il corso dell’Orenoco, in un intricato dedalo di piante, ma alla fine la promessa di Yaruri, traditore del suo popolo e del segreto che esso custodisce, non sarà mantenuta. Il premio riservato non sarà, infatti, la facile ricchezza che essi avevano sognato, bensì soltanto la concessione di poter mantenere la vita, dopo aver profanato la sacra città di Manoa. E così, mentre Yaruri riceverà una terribile punizione per il suo tradimento, don Raffaele, Alonzo e il dottor Velasco saranno liberati dopo aver contemplato solo una volta, e da lontano, la mitica “Città dell’oro”, in cambio della solenne promessa di non tornare mai più e di non rivelare ad alcuno ciò che hanno veduto.
Fondato, come molti altri romanzi salgariani, sul tema del viaggio in località pericolose e infide, La Città dell’oro è un romanzo breve ed avvincente, soprattutto, ancora una volta, per le situazioni di pericolo che in esso si vengono a determinare e per le descrizioni naturalistiche che Salgari profonde a piene mani nel corso della trama. A tal proposito, giova ribadire (e ciò vale per la più gran parte della produzione narrativa salgariana) che tali descrizioni, che una volta facevano storcere il naso ai più e che, in molte edizioni approssimative (si pensi ai volumi editi dalla Carroccio negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso), venivano abbondantemente sforbiciate e tagliate, costituiscono invece un elemento imprescindibile e ineludibile della narrativa salgariana, in una saldatura fra il gusto per l’avventura e la finalità informativa e pedagogica che non può assolutamente esser messa da parte per una retta e fattiva interpretazione del particolare universo narrativo salgariano.
Per quanto attiene a La Città dell’oro, il viaggio di don Raffaele, Alonzo, il dottor Velasco e Yaruri a bordo di una scialuppa entro l’intricato viluppo arboreo della foresta amazzonica e lungo le rive del fiume Orenoco «consente a Salgari di dispiegare la sua straordinaria abilità descrittiva. Egli delinea un paesaggio fortemente esotico dove miriadi di animali, fra cui scimmie barbado, giaguari, serpenti, coccodrilli lunghi cinque metri chiamati jacaré, e splendide cucujus – insetti fosforescenti che emettono una luce così intensa che ci si può permettere di “leggere comodamente anche durante le notti più oscure” – giganteschi pipistrelli, vampiri si muovono in mezzo a una profusione di piante, perfettamente sconosciute al lettore ma dai nomi piacevolmente musicali. Ed è, infatti, tutto un susseguirsi di jupati, splendide palme dalle foglie gigantesche; miriti, dalle foglie disposte a ventaglio; paphuna, dai frutti somiglianti alle pesche; bacaba, piante vinifere; anhinga, piante acquatiche dalle foglie a forma di cuore; e ancora mucammù, cari, tucumà, muruncerù, ayri, assuly, simaruba, calupi, in un caleidoscopio di suoni ammalianti».[1]
Ruggero Leonardi ha poi messo in risalto l’“anomalia” (se così può dirsi) rappresentata dal brevissimo e brusco finale del romanzo: «Quando finalmente – scrive Leonardi – ai nostri eroi è concesso, sia pure per pochi minuti, di avere una visione di questo mitico Eldorado, ecco la conclusione salgariana: “Là, in mezzo a una vallata racchiusa da immense rocce tagliate a picco, appariva una grande città i cui tetti d’oro e le cui colonne dorate scintillavano sotto i raggi del sole”. Ed è tutto qui. I tre uomini bianchi potranno tornare a casa ben muniti di oggetti d’oro perché il capo indio si mostra comprensivo ma la “favola”, un centinaio di pagine tutte protese al compiersi di un desiderio che non è solo cupidigia d’oro ma anche, e forse soprattutto, cupidigia di vedere con i propri occhi un mito ammantato d’oro, si spegne così, con poche asciutte parole».[2]
Armando Bisanti
NOTE:
[1] C. Lombardo, La leggenda dell’“Eldorado”, in E. Salgari, La Città dell’oro, a cura di C. Lombardo, Milano, Fabbri, 2003, p. 6.
[2] R. Leonardi, Vero bohèmien d’istinti randagi, in Ricchezza di Emilio Salgari, numero monografico di «Belphegor» 5,2 (2006), disponibile on line al sito www.dal.ca/etc/belphegor. Sul romanzo, cfr. anche quanto ha scritto F. Pozzo, L’officina segreta di Emilio Salgari, Vercelli, Mercurio, 2006, pp. 159-164.
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