Una poesia nascosta di Emilio Salgari



Salgari, autore di tanti romanzi e novelle, avrà mai scritto anche poesie? Che io sappia, non risulta. Di certo non ne ha mai pubblicate. Ma questo non è dir molto: quante poesie vengono scritte, e quante di queste vengono pubblicate? Non so se mai qualcuno ha provato a fare una stima del genere, io a spanne direi molto ma molto meno dell’uno per cento.
Eppure, un autore così prolifico, immaginoso, creativo, sia pure alla sua maniera, e capace di tante emozioni e suggestioni... possibile che non abbia mai sentito la tentazione di misurarsi col verso? Neanche negli anni giovanili, quando scriveva spinto da ispirazione e spumeggiar del sangue, e non ancora dai suoi contratti da “forzato della penna”?
Possibile, certo. Come è possibile il contrario. Comunque non lo sappiamo. Sappiamo però che alle scuole superiori aveva ottimi voti in italiano, e dunque si può immaginare che avesse una buona conoscenza degli autori italiani o classici. Il suo stile tanto spesso denigrato non è poi privo di figure retoriche. E il ritmo che a volte sapeva dare alla sua prosa? Solo grazie al suo orecchio fino di recensore operistico all’Arena?
E tuttavia... guardate un po’ cosa si trova in un suo romanzo, e non certo uno qualunque...
Credo che La Favorita del Mahdi, che Salgari scrisse a ventun anni (fu pubblicato a puntate su La Nuova Arena a partire dal 31 marzo 1884), sia uno dei suoi romanzi più ispirati e curati, anche nello stile. Ci sono diversi personaggi tra i più memorabili che Salgari abbia mai creato, e contiene alcuni tra i suoi brani descrittivi più potenti, come ad esempio lo straordinario affresco in movimento che ci fa del mercato di El Obeid all’alba, nel IX capitolo della terza parte. E che questo fosse uno dei suoi romanzi prediletti lo possiamo intuire dal fatto che dette a due dei suoi figli, Fatima e Omar, i nomi di due dei protagonisti.
Ma ecco un passo davvero particolare, che si trova esattamente al centro del libro, 140 pagine dopo l’inizio e a 140 dalla fine (nota 1). Siamo nel mezzo di un assalto a un barcone, fra le tenebre della notte e la luce rossastra di ruote ad acqua date alle fiamme:

La fucilata, interrotta, ricominciò ancora più furiosamente, serrata, implacabile, mortale.
La mitraglia fischiava sollevando le acque, scarnando orrendamente coloro che venivano tocchi dai proiettili; il sangue correva a torrenti e arrossava le onde del Nilo. Le canne dei fucili scottavano: erano ardenti.
I ribelli arrivavano a decine, a dozzine, a ventine, a trentine agitando freneticamente le scimitarre, le lance, le mazze, i fucili, sfidando imperterriti il fuoco infernale della darnas e cercando di arrampicarsi sul bordo urlando a chi più può. I barcaiuoli [...] si difendevano estrenuamente coi fucili, colle pistole, cogl’yagatan, colle scimitarre, colle scuri e persino coi remi, martellando, puntando, forando, schiacciando, tagliando in piena carne.


Non meno di sei accumulazioni in poche righe! Un’accumulazione di accumulazioni, si potrebbe dire (e farebbero sette). Un concitato, incalzante martellare di aggettivi, misure, armi, gerundi... come a mimare la frenesia e l’intensità drammatica del frangente, con studiati crescendo semantici (come “serrata - implacabile - mortale”, o le misure di quantità), e un effetto di contrappunto ritmico creato con serie di rime ravvicinate. Prosa, senz’altro. Ma non sarebbe possibile, almeno qui, parlare di un passaggio di prosa d’arte, per Salgari?
Ma c’è di più. Quelle due brevi frasi, prive di accumulazioni, alla terza riga del passo: “il sangue... ardenti”.
Notate niente?
C’è chiaramente una ridondanza: scottavano = erano ardenti. Non è un po’ strano? Un po’ troppo evidente? E poi, ardenti per chi? Quale folle nel mezzo di una sparatoria simile si metterebbe a toccare la canna di un fucile, sicuramente rovente? No, quell’aggettivo deve essere stato messo lì per un’altra ragione.
Riscrivo le due frasi così:

Il sangue correva a torrenti
e arrossava le onde del Nilo.
Le canne dei fucili
scottavano: erano ardenti.


Salgari ci ha lasciato una quartina rimata.
Poeticamente perfetta.
Rime esterne e rime interne, simmetriche tra loro e con entrambi gli abbinamenti che si risolvono nell’ultimo verso, enfatizzando la chiusa.
E che dire della metrica?
I primi due versi e l’ultimo sono novenari, lo stesso metro usato ad esempio dal Pascoli nella famosa (e di diversi anni posteriore) La mia sera:

Il giorno fu pieno di lampi
ma ora verranno le stelle
.

Il terzo verso invece è un settenario, verso usatissimo della poesia italiana (La nebbia agl’irti colli) e corrispondente al dimetro giambico della metrica classica. Il suo tempo (breve – lunga, binario) crea un effetto di rallentamento rispetto alle terzine dei novenari, tanto da finire per esserne equivalente in durata, come nella scrittura musicale. E come, usando gli stessi metri, fece anche il Manzoni:

Quel ramo del lago di Como
che volge a mezzogiorno
.

E si può notare anche un’altra “figura” stilistica: quella insistente allitterazione, di valenza anche onomatopeica, con una tripla serie di doppie “r” che si rincorrono in un breve spazio, quando l’attenzione è sull’orrore del sangue che cola. Quando invece lo sguardo si posa sulle acque del fiume, sono le liquide “l” a rincorrersi l’una dietro l’altra, come ondicelle appunto.
Noterei ancora che proprio in questa quartina viene momentaneamente sospeso il racconto dell’azione; così lo sguardo sulla scena si fa impressionistico, mentre si passa dal dettaglio realistico dei feriti e dei proiettili all’iperbole (di registro epico) del sangue “a torrenti” che colora di rosso il Nilo. E come la “quartina” si chiude, ecco riprendere immediatamente l’azione, con quel fuoco d’artificio (una vera sparatoria di suo!) di accumulazioni, in cui ogni serie si prende a turno il proscenio come la voce di uno strumento diverso che compie il suo assolo, in un’orchestra che ha appena ripreso a suonare dopo quel breve intermezzo per voce recitante.



Cristiano Calcagno (13/01/2013)

NOTE:

1) L’edizione de La Favorita del Mahdi a cui faccio riferimento è quella Mondadori del 1974, a cura di Mario Spagnol.


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