Tra le tante cose in cui Salgari ha sbrigliato la sua fantasia, un posto non insignificante spetta alle torture. Quante ce ne ha descritte! Col ferro, col fuoco, con la goccia d’acqua, con le formiche bianche, persino una specie di (improbabile, si direbbe) supplizio di Tantalo con una tazza di tè fumante, trattamento a cui viene sottoposto, e fatto cedere, un ambasciatore britannico ne La Riconquista di Mompracem. Non ho certo letto tutte le sue opere, ma un discreto numero sì, e non ricordo di aver incontrato due volte la stessa tortura.
Ne Il Bramino dell’Assam, uno dei suoi ultimi romanzi, c’è un capitolo intitolato I furori dei filosofi. Come? Salgari che parla di filosofi? Dove vuoi andare a parare, benedett’uomo, su terreni che non sono i tuoi? E poi, che ci fanno “furori” e “filosofi” nella stessa frase? Non dovrebbero, i filosofi, prenderla appunto con filosofia? Proviamo a guardare da vicino.
A quel punto della storia, Yanez è riuscito a catturare un infingardo che si spaccia per bramino (casta elevata di sacerdoti indù), ma che lui è convinto essere in realtà un intoccabile, un paria, e soprattutto un agente dei nemici. Quello nega tutto e insiste nel dichiararsi un bramino, nobile e pio. Yanez, esasperato dalle sue menzogne, gli urla in faccia “Paria! Paria! Paria!”.
Che tortura s’inventa il portoghese, per farlo confessare?
Chiude il disgraziato in una segreta, legato a una sedia. Poi fa introdurre nella cella sei arghilah, grossi uccellacci che (ci dice Salgari) la gente chiama anche filosofi. Questi trampolieri emettono versacci sgraziatissimi, assordanti, e tanto più strillano e diventano aggressivi quanto più, chiusi in quella prigione, sentono i morsi della fame e della sete. Il bramino-paria è costretto a subirne le urla, sempre più accanite, lancinanti, insopportabili.
Eccoli, i “filosofi” e i loro furori.
Bene. È opinione comune che Salgari fosse uno scrittore grezzo. Molto grezzo. Bravo, al più, nel creare personaggi, raccontare avventure, evocare ambientazioni e atmosfere esotiche. Ma irrimediabilmente trascurato nella sua prosa, e privo di arti stilistiche e narrative.
Capace di pathos, ma non di metafore, di profondità, di ironia. Un non-ammesso alla Letteratura. Tutto può essere, e c’è chi la pensa diversamente. Ma io vorrei tornare a quella cella in Assam dove abbiamo lasciato il prigioniero e gli arghilah.
Yanez, che non è uomo dal cuore tenero, avrebbe certo potuto escogitare torture più rapide ed efficaci per far cantare il sedicente bramino, invece di chiuderlo lì ad oltranza, col rischio che magari trovasse il modo di svignarsela, e farlo stordire dal chiasso dei filosofi.
Ma non sarà allora che qui Salgari si stia prendendo una soddisfazione?
Non ci starà per caso bisbigliando che sia una terribile tortura essere costretto ad ascoltare sei filosofi che discutono, argomentano e si dànno sulla voce tra loro? E intanto sogghigna, sotto i baffoni?
E chissà poi perché i filosofi sono proprio sei. Sesto tra cotanto senno? O non piuttosto settimo? Salgari sapeva bene di non essere Dante. Lui, se fosse lì in quella segreta, sarebbe il bramino.
Il personaggio che dà il titolo al libro.
Dopo tutto, anche lui era un millantatore, spacciatosi per capitano di mare e gran viaggiatore.
Metaforicamente, era anche lui legato ad una sedia, con scrittoio nel suo caso, per “raccontare” fatti, situazioni e trame. Costretto lì da un suo editore visto, a ragione o a torto, come un aguzzino. E guarda caso, Yanez in questo romanzo appare meno simpatico del solito. A un certo punto, proprio lui famoso per la sua calma ed il suo sangue freddo, perde completamente le staffe con quell’uomo già in suo potere e gli assesta un pugno tale da fargli schizzare via un occhio. E (ho letto) sembra che Salgari in quei suoi ultimi mesi temesse di perdere la vista, troppo affaticatasi a scrivere le vicende dei personaggi a cui lui aveva dato vita.
E in aggiunta a tutto ciò, i letterati lo disprezzavano. Come questi filosofi tormentano il bramino con un coro di voci sgradevoli, rabbiose, stridule, così i Dottori (di cotanto senno), con critiche per lui malevoli, gli negavano qualsiasi dignità di scrittore.
In quel certo senso, si era anche lui sentito urlare “paria! paria!”.
E allora, eccoli serviti.
Paragonati a uccellacci gracchianti e starnazzanti, messi a tormentare un disgraziato.
Distinti saluti. Emilio.
Dunque, una metafora anche assai complessa, in chiave insieme comica e tragica, se la mia interpretazione non è un abbaglio.
Quel che voglio dire, è che non è così scontato che tutto in Salgari sia superficiale. Che sotto quel tessuto, fitto quanto si vuole, di azione e avventura e intreccio, non ci sia però nulla d’altro. Di ironie, per esempio, credo che in Salgari non se ne trovino poi tanto poche, solo a volerle vedere. E forse anche quell’ambasciatore inglese di prima, l’inviato di Sua Maestà la regina Vittoria a Brunei-Varauni, che si arrende pur di sorseggiare quel tè, non pretende di essere plausibile : forse Salgari, che degli Inglesi non amava troppo la seriosità, la superbia, ed i loro rituali esclusivi, ha voluto canzonarli così. Facendo del loro ambasciatore (appunto), precisamente quello che ne ha fatto: una caricatura.Cristiano Calcagno
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