La Scure d'argento
A cura di Felice Pozzo


Anche Giuseppe Marotta (Napoli, 1902-1963), scrittore, giornalista, sceneggiatore per il cinema e il teatro, compare nella schiera dei personaggi illustri del passato che hanno letto con entusiasmo i romanzi di Salgari e ne hanno conservato un ricordo indelebile.
Marotta, si sa, è ricordato soprattutto per la sua raccolta di storie brevi, L'oro di Napoli (Bompiani, 1947) che ottenne un grande successo, così che Vittorio De Sica ne trasse un film nel 1954. Ma prima di allora diede alle stampe presso Ceschina, tra gli altri, il bel romanzo La scure d'argento (1943, riedito da Bompiani nel 1962) che presentò con queste parole:

Supplico amici e nemici di non attribuirmi l'intenzione di aver voluto scrivere una parodia salgariana. Mi auguro anzi che tutti i miei quindici lettori non abbiano mai sentito parlare dei pirati della Malesia e delle due Tigri.
Ah, mi domando se debbo confessarvi che frugando un giorno nella nostalgia di vicende perdute o mancate che sempre ci accompagna, fin dai primi anni, in questa dolce incomprensibile vita, vi trovai 'La scure d'argento'. O prima o poi, tutti ci accorgiamo di camminare verso l'indomani con una malinconia di esiliati, specialmente se nel nostro paese ideale sappiamo di non aver mai potuto o voluto metter piede.
'La scure d'argento' vuol essere dunque, fra molte pazzie, una paraboletta di questa nostalgia...




La vicenda, che spiace riassumere perché andrebbe letta per intero, per quanto è spassosa e soprattutto per quanto se ne verifichi l'autentica essenza nelle pagine finali, intrise di malinconia, è questa. Nella fantomatica città di Rennox tutto è serioso e barboso. Gli abitanti agiscono in modo da diventare il monumento di sé stessi; le feste di carnevale sono un penoso dovere e la fantasia brilla per l'assenza. Nottetempo, però, i cittadini più importanti e insospettabili, escono furtivi, si radunano in grotte naturali, si camuffano e diventano Tigrotti di Mompracem oppure Tughs dell'India. Sandokan è in realtà l'industriale Federico Wolf, un ometto panciuto e artritico; Tremal-Naik è il valigiaio Snubb; Yanez è il dottor Stevens, che non è un fumatore ma che accende una sigaretta dopo l'altra per entrare meglio nel personaggio; Kammamuri è il notaio Ferguson e Suyodhana, capo degli strangolatori, è l'affarista Karen. E così via.
La scure d'argento del titolo, simulacro e pomo della discordia davanti al quale i più bei nomi di Rennox stanno pervasi da mistico raccoglimento, non è che “una volgare accetta pazientemente rivestita di stagnola”. I tiri mancini che le due fazioni si scambiano sono memorabili e coinvolgono le ignare ed allarmate forze dell'ordine, considerate “l'odiato inglese”, nemico – come si sa- sia dei Tigrotti che dei Tughs.
Alla numerosissima brigata dalla doppia vita si uniscono degne signore per impersonare Surama, Darma o la Perla di Labuan: nascono storie sentimentali e situazioni grottesche che, improbabili o impossibili nella vita quotidiana, assumono importanza e bellezza durante “il gioco”.
Gioco che sovrasta sempre più la realtà, sino a confondersi con essa, come, probabilmente, accadde allo stesso Salgari. Senonchè il figlio di “Sandokan” ama, ricambiato, la figlia di “Suyodhana”, dando vita ad una situazione volutamente all'insegna di Salgari. I due padri, molto presi dalla loro ludica rivalità, sono assolutamente contrari alle nozze; il fatto è che i due giovani “devono” sposarsi.
Il figlio di Sandokan esclama, molto opportunamente: “Contro ogni apparenza e contro ogni possibilità voi vi siete trasformati in malesi e noi ci siamo baciati dovunque abbiamo potuto farlo!”
E' il crollo di un lungo sogno, di una esasperata fuga dalla realtà. Gli uomini di Mompracem e quelli di Kalì si spogliano per sempre dei loro rutilanti costumi, indossano nuovamente i grigi abiti di affaristi e trafficanti e rientrano nelle loro case, anzi nella vita vera e questa volta per sempre.
Tutto l'armamentario segreto è dato alle fiamme. Soltanto il droghiere Pitt si ribella, piange, si rifiuta di abbandonare il suo alter ego, il meticcio Sapagar. Invoca Sandokan e Yanez, a fatica si allontana dalle fiamme che stanno mandando in fumo una attraente fantasticheria e brancola come uscito “dopo lunghissimi anni dalle pagine ingiallite di un libro di avventure”. Rennox torna la compunta e barbosa città di sempre. Di notte non esce più nessuno, i tatuaggi sono nascosti con cerotti, le fughe delle mogli sono dimenticate.
Il droghiere Pitt, però, uscito dal manicomio, continua a vestirsi da Tigrotto nel suo negozietto e a vagheggiare una spedizione a Delhi, programmata prima che tutto finisse:

Camminano con passo importante, questi nostri rispettabili cittadini, e suppongo che si dirigano verso i loro cespugli di ciminiere. Lo faranno sino alla morte, come s'intuisce. Quanto al droghiere Pitt, egli ogni sera mette in una valigia un paio di gambaletti, due candele e un pacchetto di sale: ogni mattina, all'alba, il droghiere Pitt parte per Delhi.

Non è soltanto, vien da dire, perché “l'avventura di carta ci segna per la vita”, come ci ha insegnato Claudio Magris. E' che risuona sempre, per tutti, l'implacabile, insistente parola del corvo di Poe: nevermore!, mai più!. Gli anni del cuor leggero non tornano mai più. Le leggi dell'anagrafe e della vita sociale prevedono non solo le responsabilità, che sono il meno, ma spesso trascinano verso il conformismo, la massificazione, l'inaridimento della fantasia, l'ipocrisia. Inoltre la sindrome di Peter Pan è troppo rischiosa, come ci insegna il droghiere Pitt.
A noi tocca trovare gli opportuni rimedi. Senza bisogno di travestirci da Tigrotti, si capisce.
Insomma, La scure d'argento usa il mondo salgariano per dare al lettore molto più di quanto promette. E non sarebbe niente male se ottenesse una nuova edizione.




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