Il gigante che puzza



Con i naufraghi dell’”Oregon” nelle foreste Borneo, luogo prediletto da Salgari: occasione per fare alcune precisazioni riguardo a una meraviglia del regno vegetale da lui descritta.

Ai «deliziosi profumi» degli «alberi che producono i chiodi di garofano» e ai «soavi odori» esalanti da altre specie vegetali, fra le migliaia che prosperano nelle immense foreste del Borneo, si mescolano purtroppo – ci avverte il nostro Emilio – odori molto meno gradevoli. Come quello dei frutti del durion, la cui polpa – peraltro squisita al palato – «esala un acuto odore d’aglio e di formaggio marcio». Niente però che superi il puzzo pestilenziale, e oltremodo insopportabile per gli europei, della rafflesia.
Questo fiore deve aver colpito in modo particolare la fantasia di Salgari, dato che egli lo cita più volte nel corso della sua opera. Come nel romanzo del 1896 I naufragatori dell’Oregon, ambientato parte nel mare che circonda quella immensa isola dell’arcipelago indo-malese e parte nelle sue foreste, dove i due fratelli Amely e Dik sono costretti ad avventurarsi dopo il naufragio dell’Oregon, il piroscafo su cui erano diretti a Timor per ritirare una cospicua eredità: naufragio architettato, per impadronirsi di essa, dal diabolico loro cugino, l’olandese Wan-Baer.
Le peripezie terrestri dei due giovani insieme ai loro angeli custodi impersonati dal signor Held, loro tutore, e dal siciliano Guglielmo Lando, soldato delle truppe coloniali spagnole, cui s’è aggiunto un avventuriero che poi si rivelerà traditore, l’irlandese O’Paddy, offrono l’occasione a Salgari per diffondersi nelle sue consuete descrizioni della flora e della fauna esotiche, e per condire di pericoli di fiere ed uomini (pirati e dayaki cacciatori di teste) la loro marcia attraverso l’isola verso la salvezza.
Tornando alla rafflesia, ecco la descrizione che ne fa Salgari:

«Verso le dieci del mattino, dopo aver percorso una mezza dozzina di chilometri, [i naufraghi] giungevano in una piccola radura dove crescevano dei fiori così enormi, da strappare grida di meraviglia ad Amely e al piccolo Dik. Erano le rafflesie, chiamate dai malesi crubul, ossia grandi fiori. Sono i più grandi che si conoscano, avendo una circonferenza di tre metri ed un peso di sette od otto chilogrammi.
Queste piante, scoperte per la prima volta dall’italiano Odoardo Beccari nel 1778, sulle falde del vulcano Singaleg, nella provincia di Padang, a Sumatra, producono una foglia sola, gigantesca, alta oltre dieci metri e larga due o tre, poi dal centro sorge lo smisurato fiore di tinta rossastra, ma punteggiato in bianco.
Non hanno profumo delizioso quei fiori, anzi tutt’altro, perché tramandano un odore sgradevole come quello che esalano i pesci putrefatti.
- Ci vorrebbero dei giganti per portare all’occhiello simili colossi – disse il soldato.
- Ecco dei fiori che i giardinieri europei pagherebbero ben cari, se potessero coltivarli – disse Held.
- Non si potrebbero acclimatizzare, signore Held? – chiese Amely.
- Guardate, signore Held, – disse Dik. – Ne vedo uno che è tutto nero.
- Una rarità, – rispose l’olandese. – Se i nostri compatrioti lo potessero trasportare a Giava od a Sumatra, sarebbero capaci di rinnovare le pazzie del famoso tulipano nero».

E qui Salgari accenna alla mania tutta olandese per i tulipani, e ai patrimoni spesi nel XVII secolo per ottenere un esemplare nero: argomento, questo, trattato da Dumas nel romanzo Il tulipano nero, e probabilmente a lui noto.
Ma torniamo alla rafflesia, citata dal Nostro anche nell’articoletto dal titolo Il fiore gigante, pubblicato su L’innocenza. Come risulta nel romanzo di cui ci stiamo occupendo, Salgari attribuisce la sua scoperta al naturalista e botanico fiorentino Odoardo Beccari, delle cui esplorazioni aveva letto sulle riviste scientifiche e geografiche disponibili all’epoca. Erroneamente però. La rafflesia, infatti, venne scoperta nel 1818 nella foresta pluviale indonesiana da sir Thomas Stamford Raffles: di qui il nome scientifico Rafflesia arnoldi. In quanto parassita, questa pianta non ha bisogno per la fotosintesi delle foglie descritte da Salgari, ma si nutre della pianta-ospite, al di fuori della quale mostra soltanto quel suo fiore mostruoso.
Quello invece scoperto da Beccari a Sumatra (non nel 1778, essendo il naturalista nato nel 1843, ma nel 1878!) era in realtà una infiorescenza con la quale la rafflesia viene spesso confusa sia per dimensioni che per olezzo: l’aro titano (Amorophophallus titanum). Nulla in comune tra i due, che tra l’altro appartengono a famiglie diverse, pur mantenendo ciascuno il primato mondiale nel suo genere: la rafflesia come fiore, l’aro come infiorescenza semplice (e cioè non ramificata), capace di raggiungere i tre metri di altezza.
Entrambi raramente visibili, abbisognando di un tempo lunghissimo per giungere a maturazione (l’aro titano può impiegare perfino dieci anni!), la loro spettacolare fioritura nelle riserve forestali dell’Asia sudorientale e in alcuni giardini botanici del mondo attira sempre folle di curiosi, magari provvisti di mascherine per resistere al putrido olezzo emesso da queste meraviglie del regno vegetale.

Oreste Paliotti


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