Arrivederci al Duemila



Gita a Nantucket, l’isola dei balenieri

Decisamente Salgari ha un feeling speciale con le isole, da Mompracem e Labuan in poi. Parlo ora di Nantucket (per lui Nantuchet), isola a forma di virgola o di boomerang, che dista qualche miglio dalla costa del New England (Massachusetts). Pressoché deserta d’inverno e affollata d’estate col suo porticciolo turistico, i fari dichiarati monumento nazionale, le pittoresche case in legno dipinto anteriori alla guerra civile americana, questo lembo di terra piuttosto piatta è soprattutto l’isola dei balenieri, punto di partenza o di sosta per molte storie immaginarie ed altre invece reali. Da qui, infatti, Melville fa salpare il Pequod, la nave del capitano Achab in Moby Dick; e qui Edgar Allan Poe fa calare l’ancora al brigantino Grampus della Storia di Arthur Gordon Pym. Passando ai fatti reali, era stata costruita nei cantieri di Nantucket la baleniera Essex, divenuta famosa nel 1820 per il tragico destino del suo equipaggio, molti membri del quale erano nativi proprio dell’isola. Al largo della quale, per arrivare ad anni più recenti, naufragò il 26 luglio del 1956 il transatlantico italiano Andrea Doria.

A Nantucket prende anche avvio l’opera più fantascientifica di Salgari, Le meraviglie del Duemila (e chissà che l’interesse dello scrittore per quest’isola non sia dovuto proprio alla storia della baleniera Essex, da lui citata in più d’un suo titolo).
In breve, la trama di questo romanzo pubblicato nel 1907, ma redatto probabilmente qualche anno prima. Lo scienziato Toby Olber, smanioso di conoscere come sarà il mondo dopo cento anni, ha scoperto il modo di “ibernare” le persone e di richiamarle più tardi alla vita. Lui stesso vuol sottoporsi all’esperimento, avendo fatto costruire a tale scopo, in un luogo remoto dell’isola, un rifugio nel quale attendere la sperata “resurrezione”. Suo compagno d’avventura sarà il giovane e facoltoso James Brandok, che con un salto nel futuro spera di guarire dal suo spleen. Felicemente sbalzati nel 2003, non senza l’aiuto di un discendente di Olber, i due amici sono pronti a prender visione delle “meraviglie” promesse dal titolo: quasi una sorta di Esposizione universale del livello di civiltà raggiunto dall’umanità. Ma il convulso e febbrile mondo del Duemila esige troppo da chi è abituato agli standard di vita del Novecento, e pertanto riuscirà loro fatale.

Non li seguiremo nel loro viaggio nel futuro: tutto un susseguirsi di scenari inconsueti, grandiosi, ma anche inquietanti. Ci soffermeremo invece su quelli più consueti e “casalinghi” offerti, agli inizi del secolo XX, da Nantucket, e che Salgari (suggestionato sì dai progressi della scienza moderna, ma non al punto da non scorgerne i limiti) si compiace di descrivere con felice penna. Godiamoci allora, con lui, questa passeggiata in un’isola che, per la prima volta forse, nell’opera salgariana, non è una terra esotica o remota, ma è facilmente raggiungibile da New York.

Dopo un pranzo squisito allestito dalla cuoca di colore Magge, il dottor Olber invita il suo giovane amico a fare una gita in calesse allo scoglio di Retz, dove s’è fatto preparare il rifugio del suo sonno centenario. Li accompagna il notaio di Nantucket, il signor Max: sarà lui a sbrigare tutte le pratiche legate al risveglio e alla successione dei beni.

«Era una splendida giornata d’autunno, rinfrescata da una brezza vivificante impregnata di salsedine, che soffiava dal settentrione.
L’Oceano Atlantico era in perfetta calma, quantunque il flusso avventasse fra le scogliere, che proteggevano le spiagge, delle ondate le quali s’infrangevano con mille boati, balzando e rimbalzando. Delle barche pescherecce cole loro belle vele dipinte di giallo e di rosso a strisce e macchie nere, che davano loro l’apparenza di gigantesche farfalle, spiccavano vivamente sull’azzurro cupo delle acque, spingendosi lentamente al largo, mentre in alto stormi di grossi uccelli marini, di gabbiani e di fregate volteggiavano capricciosamente.
Uscito dalla cinta, il cavalluccio aveva preso una via abbastanza larga che costeggiava l’oceano, slanciandosi ad un trotto rapidissimo, senza che il dottore avesse avuto bisogno di eccitarlo con la frusta.
Brandok era ridiventato taciturno, come se lo spleen lo avesse ripreso; il notaio pure non parlava, tutto occupato a fumare la sua pipa che eruttava un fumo denso come la ciminiera d’un battello a vapore.
Il dottore badava che il poney filasse diritto e non mettesse le zampe in qualche crepaccio o s’avvicinasse troppo alla scogliera, che in quel luogo cadeva a picco sull’oceano.
Dei ragazzi di quando in quando sbucavano dalle macchie di pini e di abeti che si prolungavano verso l’interno dell’isola e rincorrevano per qualche tratto il carrozzino, gridano a squarciagola:
– Buona passeggiata, dottore.
Il paesaggio variava rapidamente, accennando a diventare più selvaggio, man mano che s’accostavano alla spiaggia orientale dell’isola. Soltanto le macchie dei pini e degli abeti diventavano più numerose e più folte e le scogliere più alte e più ripide. Le onde dell’Oceano Atlantico s’infrangevano colà con un a violenza tale, che pareva si sparassero delle cannonate in fondo ai piccoli fiords scavati dall’eterna azione delle acque.
Era un rombo continuo, sempre più fragoroso, che impediva ai tre amici di parlare, non potendosi udire».


Salgari a Nantucket non c’è mai stato, ma in questa descrizione forse non è azzardato scorgere qualche reminiscenza di paesaggi più nostrani a lui ben noti: ad esempio quelli di Chioggia e dintorni. Quelle barche pescherecce dalle vele dipinte di giallo, rosso e nero, infatti, non fanno venire in mente quelle che, così colorate, frequentavano un tempo l’Adriatico? Sembra che, a conclusione della prima parte del romanzo, Salgari abbia voluto riempirsi gli occhi con un’ultima visione rassicurante del mondo che conosceva, prima di avventurarsi nell’ignoto Duemila. Dove, più che la natura da lui prediletta, è protagonista la gelida bellezza delle macchine, delle nuove invenzioni dell’indaffarato e febbrile XXI secolo.

Oreste Paliotti


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