Gli orrori delle galere
Viaggiando con Emilio per colonie penali storiche e di fantasia
Anni fa, leggendo un bellissimo ma altrettanto triste saggio di Robert Hughes dal titolo La riva fatale, ebbi modo di conoscere le origini della colonizzazione inglese dell’Australia, la cui costa orientale, a partire dal 1786, divenne luogo di deportazione dei criminali che non trovavano posto nelle sovraffollate galere londinesi. Le leggi vigenti all’epoca in Gran Bretagna erano tali da condannare alle pene più rigorose perfino ladruncoli di poco conto. Basta dire che un tale John Hill, reo del furto di un fazzoletto di lino del valore di mezzo scellino, dovette scontare ben sette anni nelle galere australiane: un vero incubo, per scampare al quale la stessa morte veniva da molti accolta come una benedizione.
Salgari non poteva evitare un accenno a queste origini nel suo romanzo dedicato espressamente all’Australia, Il continente misterioso (1894), quando riferisce:
«Fu affidato l’incarico dell’occupazione al commodoro Philipp il quale salpò dall’Inghilterra con una squadra di undici navi montata da millecentosessanta persone fra cui settecentocinquantasette forzati e centonovantadue donne condannati tutti alla deportazione. Prima, il governo inglese aveva deliberato di mandare tutti i suoi forzati in Africa, nella colonia del Capo, ma poi li diresse invece in Australia, ed ha fatto bene».
«Ha fatto bene» in quanto, precisa poi, i discendenti dei galeotti furono causa della prosperità e della grandezza del quinto continente.
Celebre, tra i vari insediamenti sorti per ospitare i detenuti, fu l’isola di Norfolk, nell’omonimo arcipelago dell’Oceano Pacifico situato 1500 chilometri a nord-est di Sydney, tra la Nuova Zelanda e la Nuova Caledonia. Le autorità britanniche vi fondarono nel 1788 una prima colonia penale, abbandonata nel 1814; e nel 1824 una seconda, anch’essa abbandonata nel 1855. Oggi un terzo della popolazione di quel piccolo arcipelago è composta da pronipoti degli ammutinati del Bounty, costretti per motivi di approvvigionamento a trasferirvisi dal primitivo insediamento di Pitcairn nel 1856.
E proprio Nolfolk apre la serie dei penitenziari di cui Salgari s’è occupato. Nel romanzo I pirati della Malesia (1896) è il luogo di pena cui erano destinati Tremal-Naik, vittima delle infernali trame dei thug, e Sandokan, dopo essere stato fatto prigioniero da James Brooke, il rajah bianco del Sarawak. Come sappiamo, per vicende diverse, nessuno dei due arrivò mai a destinazione, evitando a Salgari chissà quali descrizioni orrorifiche di quel penitenziario. Fra l’altro, se, come sembra, il romanzo si svolge nel 1856, anno della rivolta anti-Brooke, esso doveva essere già fuori uso.
E passiamo ad un’altra colonia penale, stavolta in India: è Port-Cornwallis, dalla quale evade Palicur, giovane pescatore di perle condannato ai lavori forzati per omicidio nel tentativo di riavere la sua promessa sposa rapita per farne una sacerdotessa. Le avventure sue e dei compagni di fuga sono narrate nel romanzo del 1905 La perla sanguinosa.
Così ne scrive Salgari:
«Il penitenziario inglese di Port-Cornwallis, fondato dal governo anglo-indiano, pei forzati pericolosi, sulle coste orientali della Nord-Andamana, nel golfo del Bengala, […] che fu chiamato più tardi il cimitero degli europei, in causa del clima micidialissimo dovuto alle grandi e continue piogge e alle immense foreste che coprono quelle isole, non fu veramente mai una grande colonia penale come quelle australiane e quella di Norfolk.
Fondata sulla costa orientale dell’isola più settentrionale del gruppo delle Andamane, sulle rive d’una profonda e sicura baia, difesa da numerosi isolotti, vivacchiò senza poter mai ingrandirsi, sia per la vicinanza della costa birmana, trovandosi le isole di fronte alle bocche dell’Irawaddy, ciò che permetteva facili fughe ai galeotti, sia per la violenza dei monsoni del sud-ovest che rendevano difficile l’approdo ai trasporti dello stato, sia pei grandi calori alternati da acquazzoni furiosi che in breve tempo riducevano i sorveglianti in un tale stato, da costringerli a rimpatriare più che presto.
Nel 1850 lo stabilimento, quantunque fondato da parecchi anni, si componeva ancora di poche baracche pei forzati, di una caserma, d’una prigione e d’un ospedale che era sempre più popolato; e la sua guarnigione non superava i cinquanta uomini incaricati della vigilanza di tre o quattrocento galeotti, quasi tutti indiani e cingalesi».
Segue una lunga descrizione delle «furberie dei forzati per procurarsi delle malattie artificiali che li esoneri per qualche tempo dai durissimi lavori dei cantieri»: trucchi «tali da ingannare i più abili medici». Sarebbe interessante scoprire le fonti alle quali attinse Salgari per compilare il sorprendente elenco! Non ho trovato tuttavia traccia del penitenziario dove avrebbe dovuto trovarsi: sull’Isola Ross, la «più settentrionale del gruppo delle Andamane». Probabilmente fu dismesso per i motivi ricordati da Salgari. Viceversa a Port Blair, la capitale del distretto federale delle Andamane e Nicobare, fondata nel 1789 dagli inglesi sulla Andamana del sud, è diventato un’attrazione turistica il “Cellular Jail” dove un tempo i criminali comuni indiani e i dissidenti politici languivano in celle di isolamento e venivano sottoposti a un regime di lavoro brutale, fra torture ed esecuzioni. Oggi l’enorme prigione è un museo memoriale.
E un museo è diventato anche ciò che resta, nella Guayana francese, del penitenziario delle Isole della Salute: nome che suona come una beffa in quanto i galeotti di quella colonia agraria morivano rapidamente per febbre gialla, dissenteria ed altre malattie tropicali. Ad una delle tre isole di quel piccolo arcipelago, l’Isola del Diavolo, Salgari dedicò il racconto omonimo, uno dei 67 apparsi tra il 1900 e il 1906 nella “Bibliotechina Area Illustrata” dell’editore Biondo di Palermo.
Ne riporto l’incipit:
«A circa cinquanta miglia dalla Guaiana francese, colonia grande per estensione, ma non per popolazione, che è situata nell’America meridionale, ed è bagnata dalle tiepide acque del golfo del Messico, sorge un’isola che godette per parecchi anni di una triste celebrità, essendovi stato relegato il capitano Dreyfus che il grande scrittore Emilio Zola difese strenuamente, ottenendo alla fine la liberazione di quel disgraziato innocente.
Quell’isola o meglio quell’isolotto, fu chiamato del Diavolo, e la Francia se ne serve come luogo di relegazione dei condannati politici e anche degli assassini più pericolosi, per togliere loro ogni mezzo di evadere.
Nessuno scoglio è più triste di quello del Diavolo, e l’impressione che ne riportano i forzati quando vi vengono sbarcati, è così desolante che anche i più incalliti nel delitto non possono trattenere le lagrime».
Rimaniamo in Sud America, ma facendo un immenso salto fino all’estrema punta meridionale del Cile, in Patagonia, per seguire le vicende della bellissima meticcia Mariquita in cerca del fidanzato disperso. Sono narrate nel romanzo del 1906 La Stella dall’Auracania. Giunti sulla penisola di Brunswick di fronte alla Terra del Fuoco, troviamo Punta Arenas, oggi il centro urbano superiore ai 100 mila abitanti più a sud del mondo, punto di partenza privilegiato per le spedizioni nell’Antartide.
A causa del suo isolamento, all’epoca del romanzo il luogo ospitava una colonia penale e una guarnigione punitiva per soldati indisciplinati.
«Punta Arenas è il capoluogo dell’immenso territorio magellanico, s’innalza su un piccolo poggio circondato da fitti boschi di faggi antartici ed è bagnata da un minuscolo fiumicello che fornisce un’acqua eccellente ai suoi abitanti: il Rio de las Minas. È una cittaduzza tutta costruita in legno, con case di bell’aspetto che dànno a quel piccolo centro un non so che di grazioso e di civettuolo, con una chiesa che lancia ben alto il suo campanile pure di legno ed un fortino armato di alcuni cannoncini, i quali hanno dovuto tuonare più volte contro le bande dei patagoni.
Prima del 1843 era stata costruita la' dove sorgeva anticamente la Ciudad Real de San Felipe, nel celebre Porto della Fame. Ribellatosi il presidio dietro istigazione del suo comandante, un luogotenente d’artiglieria, il quale aveva ucciso il governatore, veniva abbandonata per ricostruirla un anno dopo nel luogo dove attualmente si trova.
Punta Arenas è una colonia penitenziaria, abitata per la maggior parte da guasos cileni, uomini di bassa statura, quasi tutti condannati, che di giorno possono lavorare liberamente nelle segherie e di notti vengono chiusi nel quartel, sotto la sorveglianza del presidio, che si compone d’una cinquantina di soldati agli ordini d’un capitano».
Salgari non ci dice quali fossero le condizioni dei prigionieri relegati in questo lembo remoto del continente sudamericano. Saranno state più umane che non a Norfolk, a Port-Cornwallis o nell’Isola del Diavolo? Certo molto più di quelle descritte nel romanzo che segue.
Gli orrori della Siberia, edito nel 1907, ci trasporta ora, come dice il titolo, nella Russia zarista di Alessandro II. I due protagonisti, il colonnello polacco Sergio Wassiloff e lo studente ucraino Iwan Sandorf, accusati di nichilismo, sono condannati ai lavori forzati nelle miniere d’oro siberiane di Algasithal. La terribile marcia della colonna dei deportati per arrivare in quell’inferno di gelo, i soprusi e le violenze a cui essi sono sottoposti, e la successiva avventurosa fuga dei due prigionieri politici costituiscono la materia prima di questa appassionante vicenda.
Ecco descritto il loro arrivo a destinazione:
«Mezz’ora dopo, come egli aveva detto, Sergio e lo studente venivano fatti salire in una slitta in compagnia di altri due prigionieri, due galeotti, che sul volto portavano l’infame stigmate del carnefice e partivano per le miniere di Alghasital, scortati da quattro soldati del reggimento Amur e da un poliziotto.
Risalirono di galoppo la vallata dell’Angara, passando attraverso ad aspre colline coperte di folte selve di betulle, di pini e di larici, che si arrampicavano su pei dirupi, fino sulle più alte vette della grande giogaia dei Sajan, e tre ore dopo giungevano su di una specie di altipiano, rinserrato fra immense rocce tagliate quasi a picco. Colà i prigionieri, non senza un fremito, videro parecchi drappelli di forzati, magri, sparuti, coi lineamenti alterati, le vesti a brandelli e luride, aggirarsi attorno ad un grande fabbricato di tronchi d’albero e parte in muratura, sormontato da due alti camini, dalle cui estremità si alzavano due lunghi pennacchi di fumo nero e denso.
Alcuni guardiani, dall’aspetto arcigno, sorvegliavano quei miserabili colla frusta in mano e la rivoltella alla cintura, bestemmiando e minacciando ad ogni istante.
– Ecco il nostro inferno – disse il colonnello, con un sospiro».
Segue la descrizione dantesca della miniera, immensa voragine che si sprofonda nelle viscere della terra sulle pareti della quale, fra boati, grida, imprecazioni, colpi di frusta i forzati arrancano in mezzo al polverone oppressi da carichi di terra aurifera e di stagno.
Da dove Salgari può aver tratto la notizia e il toponimo di Alghasital in mezzo al numero davvero enorme di miniere di cui è provvista la Siberia? Ecco un altro spunto di ricerca per chi ne ha tempo e voglia.
Abbandonando in fretta il gelo intollerabile delle montagne siberiane, ci trasferiamo ora negli ardori allucinanti del deserto algerino, ai piedi della catena montuosa dell’Atlante. Le scene iniziali di Sull’Atlante (1907), romanzo sulla Legione straniera, vedono due personaggi diventati legionari un po’ per disperazione e un po’ per avventura, il conte ungherese Michele Cernazé e lo studente toscano Enrico, internati per punizione nell’inferno del bled algerino.
Così il bled? Il termine sta per “entroterra”.
Ma sentiamolo da Salgari:
«Il bled è l’accampamento destinato ad accogliere quei disgraziati arruolatisi nella Legione straniera, che in un momento di esaltazione, prodotta talvolta dalla ferrea disciplina, tal’altra dai cattivi trattamenti o dal clima rovente, si sono rivoltati ai loro superiori.
Il bled si trova sempre lontano dal Mare Mediterraneo ed anche dalle città: si può dire che sia piantato in pieno deserto.
È un campo immenso, circondato da tettoie e da tende, con un fabbricato tutto bianco, che serve per capitano comandante la compagnia e pei suoi ufficiali e graduati in sott’ordine. V’è anche un piccolo ospedale annesso.
Su questo campo polveroso, esposto al sole bruciante, senza un palmo d’ombra, le compagnie di disciplina fanno le loro manovre, le quali non consistono altro che in corse furiose, con zaino in ispalla, le quali non tarderanno a condurre alla tomba il povero condannato.
Vi è però qualche variante: il tiro della carriola. Il soldato corre allora spingendo innanzi a sé il piccolo ruotabile carico di sabbia, deve caricarlo e scaricarlo a seconda degli ordini, e continuare così finché cade, completamente estenuato, o fulminato da un colpo di sole!».
Fin qui le colonie penali “storiche”. Ma con la sua fervida fantasia Salgari ne ha immaginate altre due nel suo romanzo avveniristico Le meraviglie del Duemila (1907). La prima, situata al Polo Nord, ospita «anarchici pericolosi, provenienti da tutti i paesi del mondo e condannati a finir qui la loro vita».
Osserva Salgari:
«Quei coloni, un giorno così pericolosi, erano diventati assolutamente pacifici e mansueti come agnellini. Era l’influenza del freddo o l’isolamento che aveva operato quel prodigio su quei cervelli esaltati? Probabilmente l’una e l’altra cosa insieme. Certo non ci trovavano più gusto a parlare di bombe, d’incendi e di stragi, con un freddo di 45° sotto zero. Preferivano fumare la pipa accanto ad una lampada a radium, godendosi il calore che tramandava. Come si vede, i governi d’Europa e d’America avevano avuto una eccellente idea a mandarli in quel clima, perché… si raffreddassero».
La seconda colonia, presso le coste irlandesi, è «una delle città sottomarine inglesi dove si trovano relegati i più pericolosi banditi del Regno Unito». Posa «sulla cima d’un isolotto sommerso a quindici metri di profondità» e affiora sulla superficie marina come «un’immensa cupola che doveva avere almeno 400 metri di circonferenza formata d’armature d’acciaio d’uno spessore straordinario e di lastre di vetro di forma rotonda incastrate solidamente e molto grosse».
Senonché un furioso uragano scardina la città sottomarina dal suo appoggio: fortunatamente essa galleggia, ma i forzati ne approfittano per ribellarsi, darsi all’orgia e poi scannarsi a vicenda. Travolta da una seconda tempesta, la città trasformatasi in trappola finisce per schiantarsi sulle coste dell’isola di Tenerife, dove anche gli ultimi superstiti annegano.
Oreste Paliotti
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