Egitto, dove tutto è immenso



Nei luoghi del romanzo in cui Salgari fa più sfoggio del suo aggettivo preferito.

Il frequentatore degli scritti salgariani ha certamente fatto l’orecchio ad un aggettivo particolarmente caro allo scrittore: immenso. Sempre immense, infatti, nelle avventure narrate da Emilio, sono le foreste, immensi sono gli abissi marini e naturalmente gli spazi eterei, immense certe realizzazioni dell’ingegno umano. Se poi fermiamo l’attenzione su uno dei suoi romanzi ispirati dall’antichità classica, Le figlie dei faraoni, l’uso di tale aggettivo diventa quasi ossessivo, come dimostrano gli esempi riportati più avanti.
Scenario principale della vicenda, che vede il giovane faraone Mirinri alla riconquista del trono usurpato dallo zio Pepi, è Menfi, la capitale dell’Antico Regno fiorita allo sbocco del delta del Nilo dal 3100 circa al 1955 a.C., epoca in cui cedette il primato a Tebe (l’attuale Luxor), rimanendo però capitale dal Basso Egitto e il più importante centro religioso del Paese, per poi decadere inesorabilmente dopo la fondazione di Alessandria.
Così Salgari immagina l’apparire della superba Menfi agli occhi di Mirinri e dei suoi arrivando in barca sul Nilo:

«I loro occhi erano fissi verso il nord, come se da un istante all’altro s’aspettassero di veder sorgere sul luminoso orizzonte le grandiose piramidi che circondavano l’orgogliosa Menfi, i templi immensi, gli obelischi giganteschi, le dighe immense, che formavano in quelle epoche lontane e che pur formano anche oggidì, dopo cinquemila e più anni, la meraviglia del mondo. Le due rive cominciavano ad apparire abitate. Qua e là, sulle piccole alture, che la piena del Nilo non poteva raggiungere, si scorgevano dei templi, delle fortezze merlate colle pareti oblique, dei muraglioni enormi, entro i quali, come inquadrettati fra cornici meravigliosamente scolpite, si scorgevano delle statue gigantesche, coperte solo da un perizoma rigato in tre, colla punta centrale cadente innanzi, la barba rettangolare appesa al mento e delle statuette di divinità ai due lati. Le divinità dell’antico Egitto sormontavano quelle dighe colossali, costruite per impedire alle acque del Nilo di espandersi nelle fertili campagne troppo basse e di rovinare i raccolti. Ora era una mucca Hathor che giganteggiava, colle immense corna reggenti degli strani emblemi fra i quali non mancava mai di figurare l’astro solare; ora era Osiride, olimpicamente seduto sul suo trono, colle braccia incrociate sul ventre; o una riproduzione delle colossali statue di Memnone o di Ramsete, o di Menes il fondatore della grande Menfi, il primo re della prima dinastia egiziana che regnò settemila anni or sono quando né Atene, né Roma e nessun essere umano ancora le sognavano».

E continuando la descrizione della capitale faraonica:

«La città occupava un’area immensa, perché serviva d’asilo a molte centinaia di migliaia di abitanti, spingendo le ultime case fino sulle sabbie del deserto libico, su quelle sabbie traditrici che dovevano più tardi concorrere potentemente alla sua distruzione, secondo la triste profezia di Geremia. Tebe fu meravigliosa, ma non poté raggiungere mai lo splendore di Menfi, che fu la più popolosa città del mondo antico, come la più ricca di monumenti e la più potente come piazza forte. Come scomparve attraverso tanti secoli quella grandiosa città, senza quasi lasciare traccia della sua esistenza? Sembrerebbe impossibile, eppure di tutti quei monumenti colossali oggidì non sono rimaste a dimostrare il luogo ove un giorno sorgeva, altro che alcune piramidi che resistettero, assieme ad altre, agli insulti del tempo, un pezzo di una statua colossale che rappresenta Ramsete II ed una Necropoli, la più antica del mondo, dacché ha all’incirca settemila anni d’esistenza e che nel tempo istesso è anche la più vasta, avendo una larghezza di ben sessanta chilometri. Tutto il resto è crollato, come se una spaventevole scossa di terremoto avesse tutto distrutto e quello che è più, perfino le rovine di quei colossali monumenti sono scomparse».

Segue la scena del tempio del dio Hapi o della Sfinge, dove Salgari fa iniziare la cerimonia dell’abbeverata nel Nilo del sacro toro emanazione di Osiride e di Ptah, e dove pure colloca l’incontro di Mirinri con Nitokri, l’affascinante figlia di Pepi, nella quale riconosce la faraona di cui si è invaghito dopo averla strappata dalle fauci di un coccodrillo:

«Quel tempio occupava un’area immensa e poteva contenere fra le sue mura, formate da enormi massi di pietra calcarea, migliaia e migliaia di persone, le quali potevano circolare liberamente fra le innumerevoli colonne quadrate, formate da massi enormi di granito e d’alabastro sovrapposti, sostenenti la piattaforma orizzontale ed i soffitti delle sale».

Né poteva mancare la descrizione del palazzo reale:

«Visto da lontano aveva l’apparenza d’un enorme masso di pietra candidissima, essendo tutto costruito in marmo bianco, nondimeno non aveva, a quanto sembra, che una solidità fittizia, perché non resse alle ingiurie del tempo come le piramidi e scomparve fra le sabbie, probabilmente diroccato, senza lasciare più alcuna traccia, malgrado le larghe ricerche fatte dagli egittologhi moderni. Si narra però che avesse delle sale immense, d’una bellezza meravigliosa, colle pareti ed i soffitti incrostati di lapislazzuli, i pavimenti di malachite e le alte colonne coperte di lamine d’oro e tutte istoriate, con disegni variopinti alla base e alla cima».

Dalla capitale spostiamoci ora nel Dashur, dove Salgari colloca la piramide che racchiude la mummia di Rodope, la bellissima schiava di stirpe tracia che il faraone Psammetico (per Salgari, Menkeri ovvero Micerino) elesse sua sposa: vicenda che avrebbe ispirato a Perrault la fiaba di Cenerentola:

«La piramide di Rodope, entro cui si erano riuniti i partigiani di Teti, non aveva le dimensioni di quella di Cheope, quantunque fosse annoverata fra le maggiori dell’immensa Necropoli di Menfi ed in quel tempo era ancora intatta, non avendo ancora dovuto servire i suoi materiali alla costruzione di Tebe. Al pari delle altre, aveva camere vuote immense, corridoi e nel suo centro la cripta, dove dormiva già da secoli la salma della bella regina, entro un meraviglioso sarcofago di basalto azzurro, chiusa da un masso enorme di granito così duro da sfidare il piccone, avendo gli egiziani una cura estrema per rendere inviolabili i sepolcreti dei loro re e delle loro regine».

L’ultimo sito monumentale descritto da Salgari è il serbatoio del Nilo, scelto come luogo del supplizio di Ounis, il quale altro non è che lo spodestato faraone Teti padre di Mirinri; supplizio provvidenzialmente interrotto da un’eclissi solare:

«Un po’ al di sopra di Menfi, ad occidente del Nilo, in quel luogo ove la catena libica comincia ad allargarsi, formando una pittoresca oasi che chiamasi ancora oggidì Fagoum [Fayyum], aprivasi quel famoso serbatoio fatto costruire da Amenemhat III che formò per secoli e secoli la meraviglia degli assiri, dei caldei e dei naviganti greci e che era destinato a ricevere le acque sovrabbondanti del fiume ed a regolare l’irrigazione in tutto il paese circostante. Era un’opera meravigliosa, un bacino immenso che aveva delle dighe di cinquanta metri di spessore e della lunghezza di parecchie decine di chilometri, come si poté costatare dagli avanzi che ancora sussistono oggidì, dopo migliaia e migliaia d’anni da che furono erette. Era quel famoso lago di Moeris, come fu chiamato dai greci che lo visitarono più tardi, sulle cui rive sorgeva il Laberinto, che era il più vasto palazzo del mondo, avendo più di tremila camare, colla facciata di calcare bianco, che si rispecchiava nelle acque, come marmo di Paros e con nel mezzo le due colossali statue di Amenemhat III e sua moglie. In quel meraviglioso bacino, ventiquattro ore dopo la cattura del disgraziato Ounis, più di centomila persone si erano radunate, scaglionandosi sulle gigantesche dighe che formavano come un immenso anfiteatro».

Ed oggi? Purtroppo dell’antica Menfi, sita a 19 chilometri dal Cairo, rimangono scarsissimi resti: distrutta nel corso dei secoli dagli invasori stranieri, con la conquista araba fornì i materiali per la nuova capitale egiziana; come se non bastasse, il limo prodotto dalle inondazioni del Nilo e la crescita del livello delle sue acque dopo la costruzione della diga di Assuan rendono pressoché impossibili le indagini archeologiche. Sul luogo del tempio di Ptah, attuale villaggio di Mit Rahina, è sorto un piccolo museo a cielo aperto, che vale la pena visitare non fosse altro per ammirare una sfinge in calcite di 80 tonnellate e, distesa al suolo, una statua in calcare di Ramesse II (o Ramsete, come cita Salgari), la cui mole gigantesca – è alta circa 10 metri priva di piedi – impedì agli inglesi di trasportarla al British Museum come avevano fatto con molte altre statue monumentali rinvenute nel posto. Di Menfi, in compenso, sopravvivono le necropoli nelle immediate vicinanze: nella piana di Saqqara, dove fra le altre tombe spicca la piramide di Zoser “a gradoni” costruita dal grande architetto Imhotep, ritenuta prototipo di tutti gli altri monumenti del genere; e nella piana di Giza, celebre per le piramidi di Cheope, Chefren e Micerino.
L’altro complesso sepolcrale dove Salgari colloca la piramide della regina Rodope è la necropoli di Dahshur, ubicata tra Saqqara sud e il sito archeologico di Mazghuna, a 45 chilometri dal Cairo, in una zona desertica al principio dell’altopiano libico, su un terreno cedevole che procurò notevoli problemi alla costruzione della piramide del sovrano Snefru: di qui il suo caratteristico profilo romboidale. Sembra che il sarcofago di basalto azzurrino appartenuto a Rodope, di cui parla Salgari, sia affondato nel 1837 davanti Cartagena insieme alla nave che lo stava trasportando con altri reperti in Inghilterra.
A proposito invece del cosiddetto Labirinto presso il lago di Moeris (o di Meride), di questa costruzione che era parte integrante del tempio funerario del faraone Amanemhet III (1842-1797 a.C.) rimangono solo poche rovine in quanto fin dal tempo dei romani venne utilizzata come cava di pietra.
Per Le figlie dei faraoni Salgari attinse le sue informazioni principalmente da autori classici come Diodoro Siculo, Claudio Eliano, Erodoto e Strabone. Certo, il suo è un Egitto ricreato mettendo insieme vicende e monumenti di epoche diverse, non senza sviste e inesattezze; e tuttavia è un Egitto di grande suggestione per l’atmosfera che ben rende gli splendori di un mondo vagheggiato e perduto.
A lui, competente recensore di opere liriche, il romanzo fu ispirato senza dubbio dall’Aida verdiana a cui dovette assistere a Verona se non altrove (non all’Arena, dove la prima messa in scena del melodramma risale a due anni dopo la sua morte, nel 1913). Ciò è evidente soprattutto nell’episodio di Mirinri condannato ad essere sepolto vivo nella necropoli: un richiamo letterale alla “fatal pietra” che sigilla la tomba in cui Radames e Aida intonano il duetto finale. Ma anche per altri accenni: quando Ounis, credendo morto Mirinri, esclama «Amore fatale che lo ha perduto», fa venire in mente l’aria Numi pietà, là dove Aida invoca «Amor fatal, tremendo amor…»; o quando il coro delle sacerdotesse di Ptah (trasformato da Verdi in Ftah per ragioni eufoniche) intona “Immenso Ftah”.
Proprio così: non siamo forse in Egitto dove tutto è immenso?

Oreste Paliotti


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