I palazzi di Capitan Tempesta
Da Napoli a Venezia. Ci fa da guida il ciclo dedicato alla duchessa di Eboli e al Leone di Damasco.
«”Sarebbe stato meglio che io non avessi mai veduta Venezia, quella sirena incantatrice dell’Adriatico, e che non avessi mai lasciate le azzurre acque del Golfo di Napoli…” disse ad un tratto, come parlando fra sé. “Il mio cuore non soffrirebbe ora così atrocemente. Ah quella notte deliziosa sul Canal Grande, fra i marmorei palazzi dei nobili veneti!”» con quel che segue.
Uscita dalle belle labbra di Eleonora duchessa d’Eboli, alias Capitan Tempesta, questa confessione apparsa nel secondo capitolo dell’omonimo romanzo pubblicato nel 1905 mi suggerisce un itinerario che, al posto dei luoghi esotici tipici di Salgari, si distende in Italia.
Prima però è necessario accennare alla vicenda di questa eroina della cristianità alle prese con l’Islam che occupa il breve ciclo di due romanzi: Il Capitan Tempesta, appunto, e Il Leone di Damasco del 1910. L’avvio nel 1570, quando i veneziani tentano di difendere dall’assalto dei guerrieri della Mezzaluna i loro possedimenti nell’isola di Cipro. Per salvare il fidanzato fatto prigioniero dai turchi ottomani («un gentiluomo francese, il signore Le Hussière, valoroso capitano, che la Repubblica veneta aveva assoldato e mandato in Oriente»), Eleonora veste gli abiti maschili di Capitan Tempesta e si copre di gloria a Famagosta assediata dai seguaci del Profeta. Dopo aver vinto in leale duello Muley-el-Kadel, ovvero il Leone di Damasco, nel precipitare degli eventi viene ferita gravemente ed è costretta a ricorrere alla protezione del campione dell’esercito turco, rivelando il suo vero essere. Una volta guarita, si reca – sempre in abiti maschili – nel castello di Hussif dove è tenuto prigioniero Le Hussière. La castellana, la bella e crudele Haradja, fidanzata respinta del Leone di Damasco, se ne invaghisce e cede il prigioniero, a patto che Hamin Eleonora (così si fa conoscere la duchessa) sfidi Muley e lo vinca. Scoperto l’inganno, la vendicativa turca insegue i fuggitivi con l’aiuto di un rinnegato polacco; costui annega Le Hussière, già provato dagli stenti e ferito, ma a sua volta – nella battaglia finale che vede l’intervento del Leone di Damasco – muore per mano di Capitan Tempesta. L’ultima scena vede Muley ed Eleonora nuovi innamorati (lui convertitosi al cristianesimo) in viaggio su una gagliotta verso Venezia, dove celebreranno le loro nozze.
Nel secondo romanzo del ciclo, che si conclude con la battaglia di Lepanto successiva alla presa di Famagosta (1571), manipolando la verità storica Salgari sposta l’azione a circa quattro anni dopo. Siamo nell’isola di Candia, ultimo possesso di Venezia contro l’avanzata dai turchi, ed Eleonora e Muley sono tornati a dare man forte ai cristiani. Non dimentica dell’affronto subìto, Haradja ha approfittato della loro assenza per far rapire a Venezia il piccolo Enzo nato dalla loro unione. Capitan Tempesta riesce però a raggiungere la turca invasata di vendetta, a ferirla in duello e a farla sua prigioniera: l’intento è di scambiarla col figlioletto prigioniero. Ma tale scambio si rivelerà un abile trucco: Enzo rimane ancora nelle mani dei turchi. Affranti ma non domi, i genitori si lanciano in ogni genere di avventure pur di riaverlo, sempre però inutilmente. L’epilogo dell’emozionante vicenda si avrà nell’ultima grandiosa scena di battaglia con la vittoria della flotta cristiana su quella turca, la punizione della perfida Haradja e il ritorno degli sposi a Venezia col piccolo Enzo.
Torniamo a Capitan Tempesta, «la figlia del più formidabile spadaccino che abbia vantato Napoli», il duca di Eboli, dal quale ha appreso i segreti dell’arte della scherma. Dunque Eleonora ha le stesse origini napoletane di un’altra figura salgariana: Marianna Guillonk. E come la Perla di Labuan ha dato il suo cuore a Sandokan, lei s’è innamorata di Muley-al-Kadel, un prode appartenente ad altra etnia e altra religione.
Non so da dove Salgari abbia ricavato le origini nobiliari di questa emula delle eroine dei poemi cavallereschi di Boiardo, Ariosto e Tasso, vissuta all’epoca in cui Napoli e il Sud Italia formavano un viceregno sotto il controllo della corona di Spagna. Se le mie informazioni sono esatte, i duchi di Eboli – fu questo uno dei numerosi titoli della ramificata e potente dinastia dei Doria che, originaria di Genova, accompagnò la vita della provincia di Salerno per oltre tre secoli – ebbero proprietà e feudi in tutto il Meridione, oltre che a Napoli. Le cronache segnalano che la cittadina campana divenuta famosa grazie al romanzo di Carlo Levi Cristo si è fermato a Eboli fu anche un possedimento dei principi spagnoli Ana de Mendoza y de La Cerda e del marito Ruy Gomez da Silva dal 1557 al 1569, anno che precede le vicende narrate nel Capitan Tempesta.
Mettere ordine in questo guazzabuglio (tra invenzione e storia non sempre Salgari l’azzecca!) sarebbe compito di un esperto delle complicatissime alleanze e discendenze delle famiglie di sangue blu. Mi limito pertanto a seguire l’itinerario che mi sono proposto, visto che il Nostro suggerisce anche il probabile luogo della città partenopea dove i d’Eboli erano accasati, quando afferma che il padre di Eleonora fu «assassinato una notte dai suoi rivali che lo avevano assalito in via Toledo, in dieci». Via Toledo è la celebre arteria lunga circa un chilometro e mezzo voluta nel 1536 da Pedro Àlvarez de Toledo nell’ampliamento della Napoli vicereale: un luogo prestigioso, un susseguirsi di chiese, piazze e palazzi gentilizi, la cui fama sarebbe stata accresciuta da Stendhal e dagli altri viaggiatori del Grand Tour.
Circa a metà di questa via, oggi come in passato intensamente frequentata dai napoletani e dai turisti, sorge lo splendido palazzo Doria d’Angri (principi d’Angri era, come duchi d’Eboli, un altro titolo di questa casata aggregata al patriziato napoletano del Seggio di Porto) eretto come sua sede estiva dal principe Marcantonio Doria, demolendo due fabbriche cinquecentesche da lui acquistate tra il 1749 e il 1755. Potrebbe, almeno una delle due, essere stata per qualche tempo la dimora dove Eleonora d’Eboli trascorse la sua prima giovinezza? Sarebbe un’ipotesi affascinante.
Iniziato da Luigi Vanvitelli e, a causa della sua morte, terminato da Ferdinando Fuga, Mario Gioffredo e Carlo Vanvitelli, il nobile edificio s’affaccia per un lato su via Toledo, mentre la facciata marmorea guarda su piazza Sette Settembre, già largo dello Spirito Santo. Nel 1860 esso divenne famoso perché il 7 settembre, appunto, dal balcone sovrastante il monumentale ingresso Garibaldi annunciò l’annessione del regno delle Due Sicilie a quello d’Italia. L’antico stemma dei Doria è tuttavia scomparso perché il prospetto venne parzialmente danneggiato dalle bombe dell’ultima guerra mondiale.
Dalla patria di Eleonora ci trasferiamo ora a Venezia, dove iniziò l’idillio col suo primo innamorato Le Hussière. E qui andiamo più sul sicuro perché la dimora dove lei e il suo sposo andarono a vivere dopo la presa di Famagosta, dove venne alla luce il figlioletto Enzo e dove tutti e tre fecero ritorno dopo la presa di Candia e la battaglia di Lepanto, esiste tuttora con le sue trine marmoree specchiantesi sul Canal Grande: è palazzo Loredan dell’Ambasciatore, notevole edificio quattrocentesco in stile gotico situato nel sestiere di Dorsoduro tra altre due dimore storiche: Palazzo Moro e Casa Mainella Loredan, dalla nobile casata che lo ebbe in proprietà, due membri della quale assurti alla dignità dogale: Leonardo nel 1501 e Francesco nel 1572. E' detto “dell’Ambasciatore” perché, durante il dogato di quest’ultimo, venne affittato per 29 anni all’ambasciata austriaca. In buona parte distrutto da un incendio nel 1891, ma prontamente restaurato, esso appartiene oggi a privati, nessuno dei quali probabilmente immagina quali eroi di carta abbiano abitato fra quelle stesse mura.
Oreste Paliotti
|
Indice!
Questo sito è ideato e gestito da La Perla di Labuan
Tutti i diritti sui testi sono dei rispettivi autori