L’albero nazionale dell’India
è una meraviglia della natura. Alla ricerca di alcuni tra i maggiori esemplari di
questa pianta che da sola è capace di formare un bosco.
« Con radici
aggrovigliate
pendenti dai tuoi rami,
o antico Banyan, tu stai
giorno e notte
come un asceta
rapito in meditazione.
Ricordi il bambino la cui
fantasia
giocava con le tue ombre? ».
Sono versi che Robindranath Tagore, il
grande scrittore e poeta indiano Premio Nobel 1913, ha dedicato a questo albero
originario del sub-continente indiano e del Pakistan, ma diffuso in tutta l’Asia
tropicale e anche altrove, albero considerato sacro e onnipresente negli
antichi testi religiosi e nelle leggende popolari indù.
La prima volta in cui ne ho sentito parlare è stato leggendo I misteri della Jungla Nera di Emilio Salgari, che ne ha fornito una descrizione sostanzialmente corretta: I Banyan, chiamati altresì al moral o fichi delle pagode, sono gli alberi più strani e più giganteschi che si possa immaginare. Hanno l’altezza ed il tronco delle nostre più grandi e più grosse quercie e dagli innumerevoli rami tesi orizzontalmente scendono delle finissime radici aeree, le quali, appena toccano terra, s’affondano e s’ingrossano rapidamente, infondendo nuovo nutrimento e più vigorosa vita alla pianta. Avviene così che i rami si allungano sempre più, generando nuove radici e quindi nuovi tronchi sempre più lontani, di maniera che un albero solo copre un’estensione vastissima di terreno. Si può dire che forma una foresta sostenuta da centinaia e centinaia di bizzarri colonnati, sotto i quali i sacerdoti di Brahma collocano i loro idoli.
Banyan è il nome dato dagli inglesi a quest’albero sempreverde che può vivere per secoli e assumere proporzioni colossali; in hindi Bargad o Bher, in sanscrito Nyagrodha, è pure noto col nome antico di Bahupada, cioè “dai molti piedi”, con riferimento appunto alle innumerevoli radici. Altro nome, dovuto alla sua attitudine a inglobare nella incessante crescita qualunque oggetto o manufatto incontri, è quello di “Fico strangolatore”. Ficus benghalensis è invece il nome scientifico.
Ciò che più impressiona in questo gigante è l’energia possente che si sprigiona dalla sua foresta di tronchi argentati, a sostegno dell’immensa cupola dal fogliame verde cupo: tronchi che assumono le posizioni più capricciose (diritti come canne d’organo, inclinati, contorti come serpenti) e dai quali penzolano sontuosi drappeggi di radici. Un organismo vivente che riempie di stupore e di ammirazione, ma può anche incutere un vago senso di inquietudine, come davanti ad una creatura mitica, a metà tra il regno vegetale e quello animale.
Habitat preferito di uccelli, piccoli animali e scimmie, che non disdegnano di nutrirsi dei suoi frutti (una sorta di fichi di color rosso), lo si trova di frequente nei villaggi dell’India rurale, dove rappresenta un punto di ritrovo ideale per rilassarsi, chiacchierare, fare mercato e tenere riunioni comunitarie, grazie alla sua generosa protezione contro la micidiale calura. Inoltre varie parti di questa pianta vengono adoperate per diversi usi e anche nella farmacopea tradizionale.
Albero sacro, come dicevo, il Banyan simboleggia principalmente Shiva, ma anche Brahma e Vishnu, quando non si tratta di divinità minori, come testimoniano le immagini venerate nei frequenti tempietti sorti alla sua ombra. Secondo la religiosità popolare, pure spiriti e demoni abitano i misteriosi recessi di questa pianta, tant’è vero che, per quanto sia gradito sostarvi di giorno, nessun indù oserebbe passare la notte sotto un Banyan. Va aggiunto pure che chi per ignoranza taglia un fusto di quest’albero fa sacrilegio, cui deve riparare sacrificando una capra alla divinità del luogo. Viceversa, colui che ne pianta uno acquista meriti spirituali.
Non sono pochi in India gli esemplari plurisecolari di Banyan, veri monumenti della natura. Se si esclude il Ficus benghalensis del ”Chandra Bose Botanical Garden” di Shibpur, nel Bengala occidentale (oltre 200 anni di età, chioma la cui circonferenza di 450 metri copre una superficie di quasi 45.500 metri quadrati), non sempre gli altri sono facili da raggiungere, trovandosi in zone spesso remote e in villaggi sperduti: solo i più accaniti turisti, dopo lunghe ore di viaggio in sconquassati autobus locali, hanno la soddisfazione di avvicinarli e fotografarli. Consideriamone alcuni.
A una trentina di chilometri da Bangalore, nel sud dell’India, vive uno degli otto Banyan in assoluto più spettacolari, nei pressi del villaggio di Kengeri. Dodda Alada Mara (così il suo nome, che vuol dire semplicemente “il grande albero di Banyan”) è al sesto posto nella graduatoria: raggiunge i trenta metri di altezza, la circonferenza della chioma supera i 400 metri e gli si attribuiscono dai 350 ai 400 anni d’età.
Dalla cittadina di Kadiri, nello Stato dell’Andhra Pradesh, si può raggiungere in autorisciò l’ampio fondovalle dove vive il Banyan più grande di tutta l’India e forse, se si considera l’ampiezza spropositata della chioma (abbraccia uno spazio di circa 19 mila metri quadrati), l’albero più grande della terra: è il Thimmamma Marrimanu, nella cui area è compreso un tempio dedicato a Sri Sathi Thimmamma, la sposa del re Bala Veeranayaka. Si racconta che alla morte del marito, prima di immolarsi sulla sua stessa pira seguendo un’antichissima usanza che così stabiliva per le vedove (ne ha scritto Jules Verne nel suo Giro del mondo in ottanta giorni), questa regina avrebbe piantato agli inizi del 1400 il Banyan che oggi porta il suo nome. Oggi esso è in lenta ripresa, dopo il ciclone che negli anni Cinquanta atterrò circa il 40 per cento dei suoi fusti.
In effetti il nemico maggiore di questi monumenti vegetali è costituito dai cicloni così frequenti a queste latitudini, cui si aggiungono – è il caso di dirlo – il compattamento del suolo prodotto dal continuo viavai di turisti, che impedisce l’infiltrazione delle radici aeree, e la loro mania di portarsi via come souvenir parti di radici o addirittura intere piantine.
Sempre nell’Andhra Pradesh, dopo un avventuroso percorso di decine di ore in autobus, è possibile ammirare nella cittadina di Mahabubnagar il Pillalamarri, il quinto tra i Banyan con la chioma più estesa dell’India (12,500 metri quadrati di diametro), che viene subito prima del Dodda Alada Mara. Sua caratteristica sono i tronchi imponenti, ma più distanziati degli altri, taluni quasi orizzontali, per cui la luce vi penetra più abbondante.
E infine, nella penisola formata dallo Stato del Gujarat, il Kabir Vad, ovvero “Albero di Kabir”, su un isoletta nel mezzo del Narmada, uno dei sette fiumi sacri dell’India. Kabir è Kabir Das, santo e mistico del XV secolo, al quale la tradizione popolare attribuisce l’aver piantato questo gigante, che pertanto sarebbe vecchio di circa 600 anni. Dedicato a questo personaggio, al centro dell’area coperta dal Kabir Vad sorge un tempio ottagonale a forma di loto. Secondo un’altra leggenda, invece, sotto quest’albero si sarebbero accampati i 7 mila soldati di Alessandro Magno durante la sua campagna in India, quindi più di 2300 anni fa. Con la superficie coperta di circa 17.500 metri quadrati, è il secondo Banyan più grande dell’India.
Un cugino del Ficus benghalensis è il Ficus Macrophylla, pianta originaria dell’Australia che prospera nelle foreste pluviali raggiungendo nel suo habitat naturale perfino i sessanta metri di altezza. Albero spiccatamente ornamentale, per tal motivo è stato introdotto, a partire dall’Ottocento, in vari giardini pubblici e privati d’Italia. Ne ho parlato in un precedente “Itinerario”, a proposito dello splendido esemplare dell’Orto botanico di Palermo. Essendo i due tipi di Ficus abbastanza simili, dal secondo possiamo farci un’idea anche noi - come Salgari, che in India non c’è mai stato – di come sia fatto il primo.
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Testo a cura di Oreste Paliotti,
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