Len-Pra
La città del re lebbroso


[...] "Dov'è Len-Pra?" chiese il generale, lasciandosi cadere in una poltrona.
Una voce armoniosa, dolcissima, si fece subito udire dietro le tende di seta che si gonfiavano sotto i soffi profumati dell'aria notturna, poi una fanciulla entrò, muovendo rapidamente verso il generale.
Era Len-Pra.
La figlia del vincitore dei Birmani e dei Cambogiani aveva una figurina graziosa, sottile come un giunco, squisitamente modellata; una bella testolina, un viso dai lineamenti perfino troppo regolari per una indocinese, un profilo quasi caucasico, una boccuccia perfetta, occhi nerissimi e lampeggianti come quelli di suo padre, leggermente obliqui.
La bella capigliatura, nera e abbondante, le cadeva in pittoresco disordine sulla larga veste di seta azzurra a ricami d'oro; la pelle, quasi mai esposta al sole, era appena abbronzata, con sfumature che ricordavano certi riflessi dell'alba; aveva le braccia nude e adorne di ricchissimi braccialetti, e i piedi racchiusi in babbucce di seta gialla con ricami di perle, così piccoli da poter reggere vittoriosamente il confronto con quelli tanto decantati delle donne Cinesi.[...] [La città del re lebbroso, E. Salgari, Donath Editore, Genova, 1904, Capitolo III]



Nella foto: copertina da La città del re lebbroso, illustratore Gennaro Amato. La città del re lebbroso, E. Salgari, Donath Editore, Genova, 1904.



[...] Il momento era terribile e il pericolo gravissimo, tanto più che Lakon-tay si trovava coll'arma scarica e il dottore non aveva terminato di ricaricare la propria carabina.
Vi era Len-Pra. La coraggiosa fanciulla, vedendo che la belva si preparava a scattare, si rizzò dietro al padre e al dottore che si erano gettati dinanzi a lei per proteggerla, puntò la pesante carabina e mirò freddamente, con calma straordinaria.
Doveva avere dei nervi ben solidi quella brava siamese, per conservare un tale sangue freddo dinanzi a quella fiera, che è la più tremenda di quante ne esistano.
S'udì una detonazione secca ed il tigre fu veduto rizzarsi bruscamente come un cavallo che s'impenna sotto un improvviso colpo di sperone, poi cadere.
«Grazie, Len-Pra,» disse il dottore, tergendosi il freddo sudore che gli bagnava la fronte. «Grazie, coraggiosa fanciulla: vi dobbiamo la vita.»
La giovane siamese arrossì di piacere, mentre lasciava cadere al suolo l'arma ancora fumante di cui si era così ben servita in quel momento terribile, e guardò sorridendo il dottore, che appariva estremamente commosso.
Lakon-tay, che era diventato pallidissimo, strinse fra le braccia la figlia, dicendole con voce quasi tremante:
«Tu sei ben degna di tuo padre, Len-Pra. Hai nelle vene sangue di guerrieri.»
«Un semplice colpo di fucile sparato a tempo,» disse la giovane, ridendo.
«Che nemmeno un vecchio cacciatore sarebbe stato capace di sparare,» rispose il generale.
«No,» disse Roberto, «nessuno avrebbe potuto avere un tale sangue freddo, ve lo dico io, Len-Pra.»
«Ecco un elogio che non scorderò mai, perché detto da un uomo bianco,» disse la siamese.
«Un elogio che vi meritate, Len; se siete la più bella fanciulla che io abbia veduto nel Siam, siete pure la più valorosa, e le donne d'Europa potrebbero ben invidiarvi.»
Il generale, che pareva più commosso ancora del dottore, guardava i due giovani cogli occhi umidi.
Aveva compreso ormai che non era più solo una dolce amicizia la loro; un affetto ben più tenace, ben più ardente, ormai univa il giovane europeo e la figlia delle regioni tropicali.
Vedendoli guardarsi con aria imbarazzata, ma cogli occhi ardenti, credette opportuno intervenire.
«Andiamo a vedere le tigri, dottore,» disse. «Sono due belve superbe, ve l'assicuro.»
Mentre si volgeva per raggiungere lo spiazzo dove le due fiere giacevano a pochi passi l'una dall'altra, Roberto si chinò verso la fanciulla.
«Vi amo, Len,» le sussurrò all'orecchio.
La giovane abbassò gli occhi, arrossì, poi rispose con un filo di voce:
«Sarebbe un sogno troppo bello, dottore. Io amata da un europeo!»
Due lagrime le tremolavano sotto le lunghe ciglia.
«Venite, Len-Pra,» disse Roberto. «Vediamo dove avete colpito il tigre che contava di banchettare colle nostre carni.»
Attraversarono l'ultimo tratto del sentiero aperto dal povero lottatore e giunsero sullo spiazzo.
[...] [La città del re lebbroso, E. Salgari, Donath Editore, Genova, 1904, Capitolo XXI]






Le eroine salgariane

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