Eleonora d'Eboli Capitan Tempesta/Il Leone di Damasco
[...] Capitan Tempesta, con una mossa rapida si era sbarazzato del mantello, lasciandolo cadere a terra, mettendo una mano sul fianco e l'altra sull'impugnatura della spada che gli pendeva dalla cintura.
Era un giovane bellissimo, anzi troppo bello per essere un guerriero, un po' alto, snello, di forme eleganti, con due occhi nerissimi che parevano due carbonchi, una bocca da fanciulla con dei dentini superbi, la pelle leggermente bruna che tradiva il tipo meridionale e la capigliatura lunga e corvina. Nell'insieme sembrava più una graziosissima fanciulla che un capitano di ventura. Anche il suo costume era elegantissimo e soprattutto accurato, quantunque i continui assalti dei turchi non dovessero lasciargli troppo tempo per occuparsi della sua toletta.
Indossava una armatura d'acciaio completa, con un piccolo scudo in mezzo al petto, dove si vedevano incise tre stelle sormontate da una corona ducale, aveva speroni dorati alle scarpe, e alla cintura, di seta azzurra, mirabilmente ricamata, una spada sottilissima, coll'impugnatura d'argento, simile a quella usata dai francesi di quell'epoca. [...][Capitan Tempesta, E. Salgari, Donath Editore, Genova, 1905, Capitolo I]
[...] Capitan Tempesta non rispose. Pareva che seguisse un pensiero profondo che evocava in lui dei dolorosi ricordi, a giudicarlo dall'espressione angosciosa del suo bel viso.
- Sarebbe stato meglio che io non avessi mai veduta Venezia, quella sirena incantatrice dell'Adriatico e che non avessi mai lasciate le azzurre acque del golfo di Napoli... disse ad un tratto, come parlando fra sè. - Il mio cuore non soffrirebbe ora così atrocemente.
Ah quella notte deliziosa sul Canal Grande, fra i marmorei palazzi dei nobili veneti! La rivedo come fosse ieri, e quando vi penso sento scorrermi nelle vene un fremito che prima non avevo mai provato.
Egli era là, dinanzi a me, bello come un dio della guerra, seduto sulla prora della gondola e mi guardava sorridendo e mi rivolgeva delle frasi deliziose, che mi scendevano in fondo al cuore come una musica celeste. Per me aveva dimenticato le preoccupazioni che in tutti suscitavano le tragiche notizie giuntemi quel giorno e che avevano fatto impallidire perfino i vecchi del Senato, del Consiglio e lo stesso Doge.
Eppure sapeva che l'avevano scelto a venire qui a misurarsi coll'esercito sterminato degli infedeli; sapeva che qui forse la morte lo attendeva per falciargli la sua giovine e brillante esistenza, eppur sorrideva, ammaliato dai miei occhi.
Che cosa ne faranno di lui questi mostri? Lo faranno morire lentamente fra i più atroci martirî? È impossibile che lo tengano solamente prigioniero: egli che era diventato il terrore dei pascià, egli che aveva inflitto tante sanguinose sconfitte a queste orde barbariche, a questi lupi sbucati dai deserti dell'Arabia. Povero e valoroso Le Hussière!
- L'ami molto dunque? disse l'arabo che l'aveva ascoltata in silenzio, senza staccarle di dosso gli occhi.
- Se l'amo! - esclamò la giovane duchessa, con voce appassionata. - Amo come le donne del tuo paese.
- Forse di più ancora, signora - rispose El-Kadur, soffocando un nuovo sospiro. - Un'altra donna non avrebbe fatto quello che facesti tu, non avrebbe lasciato il bel palazzo di Napoli, non si sarebbe vestita da uomo, non avrebbe assoldato coi propri denari una compagnia e non sarebbe venuta qui a rinchiudersi in questa città assediata da centomila infedeli, a sfidarvi la morte.
- Potevo io restare tranquilla in patria, quando io sapevo che egli era qui e che correva un così grave pericolo?
- E non pensi, signora, che un giorno i turchi riusciranno a superare i bastioni e che si rovesceranno sulla città assetati di sangue e di stragi? Chi ti salverà quel giorno?
- Siamo tutti nelle mani di Dio, - disse la duchessa, con voce rassegnata. - D'altronde se Le Hussière venisse ucciso, io non sopravviverei, El-Kadur.
[...] [Capitan Tempesta, E. Salgari, Donath Editore, Genova, 1905, Capitolo II]
[...] Capitan Tempesta non aveva battuto ciglio. Levò la spada e mosse incontro al vincitore dicendogli freddamente:
- A noi due ora, signore.
Il turco guardò la giovane duchessa, con un misto di stupore e di simpatia, poi disse:
- Voi! Un fanciullo!
- Che vi darà da fare, signore. Volete riposarvi qualche istante?
- Non vi è bisogno. Mi sbrigherò presto con voi. Siete troppo debole per misurarvi col Leone di Damasco.
- Sarà pesante la spada rispose la duchessa. - Guardatevi: vi uccido!
- Sareste voi un lioncello più pericoloso dell'Orso della Polonia?
- Può darsi.
- Ditemi almeno prima il vostro nome.
- Mi chiamano Capitan Tempesta.
- Non giunge nuovo ai miei orecchi, - disse Muley-el-Kadel.
- Ed ai miei nemmeno il vostro.
- Siete un prode.
- Non lo so. Guardatevi: vi attacco.
- Vi aspetto, quantunque mi rincresca uccidere un così bel fanciullo, che ha tanta lealtà e tanta audacia.
- Vi dico di guardarvi dalla punta della mia spada. Per San Marco.
- Pel Profeta!
La duchessa, che oltre ad essere una spadaccina formidabile, era pure una amazzone impareggiabile, allentò le briglie del suo cavallo e caricò risolutamente, colla spada in linea, passando come un uragano accanto al turco.
Nel momento in cui questi si preparava a coprirsi colla scimitarra gli vibrò una stoccata in direzione della gola, onde non smussare la spada contro la corazza.
Muley-el-Kadel, che già stava in guardia, parò rapidamente, ma non interamente. La spada della intrepida fanciulla, rialzata bruscamente, lo colpì nel cimiero, il quale gli fu levato di colpo e gettato a dieci passi di distanza.
- Ecco una stoccata magnifica disse il Leone di Damasco, stupito da quella botta fulminea. - Questo fanciullo vale meglio dell'Orso della Polonia.
Capitan Tempesta continuò la sua corsa per una ventina di metri, poi, facendo fare al suo cavallo un rapido volteggio, tornò contro il turco colla spada sempre in linea, pronta a colpire.
Gli passò a sinistra, parando un colpo di scimitarra e si mise a volteggiargli intorno, spronando sempre il cavallo per imprimergli maggior velocità.
Muley-el-Kadel, sorpreso da quella manovra, aveva un gran da fare a tener fronte a quell'agile nemico. Il suo cavallo arabo, semistordito, girava sulle zampe deretane, inalberandosi, onde poter far fronte a quello del giovane capitano che pareva avesse il fuoco nel ventre.
I turchi ed i cristiani prorompevano in altissime grida, incoraggiando i loro campioni.
- Addosso, Capitan Tempesta!
- Viva il difensore della Croce.
- Uccidi il giaurro!
- Allah! Allah!
La duchessa, che conservava sempre una calma meravigliosa, a poco a poco si stringeva addosso al turco, I suoi grandi occhi neri mandavano lampi ed il suo viso si coloriva di roseo. Le sue labbra vermiglie fremevano e le sue narici si dilatavano, come aspirassero l'odore acre della polvere.
I giri diventavano sempre più stretti, mentre il cavallo arabo del turco, girando sempre su se stesso, si esauriva rapidamente.
- Badate, Muley-el-Kadel! gridò ad un tratto.
Aveva appena terminato l'avvertimento, quando la sua spada colpì il turco sotto l'ascella destra, là dove la corazza non riparava più il petto.
Muley-el-Kadel aveva mandato un grido di rabbia ed insieme di dolore, mentre fra le orde barbare s'alzava un muggito formidabile, simile al fragore che produce la marea della Manica in una notte d'uragano.
Sugli spalti di Famagosta invece, i guerrieri veneti sventolavano le bandiere ed i fazzoletti ed alzavano sulle picche e sulle alabarde i loro elmi, urlando a squarciagola:
- Viva il nostro giovane capitano! Laczinki è vendicato!
La duchessa, invece di piombare sul ferito e di finirlo come ne avrebbe avuto il diritto, aveva arrestato il cavallo, guardando con un misto di orgoglio e di compassione il giovane Leone di Damasco che faceva sforzi supremi per mantenersi in sella.
- Vi dichiarate vinto? - chiese, facendo avanzare il cavallo. Muley-el-Kadel fece atto di alzare la scimitarra per riprendere la lotta, quando le forze improvvisamente gli vennero meno.
Vacillò, s'aggrappò alla criniera del cavallo, poi cadde come era caduto il polacco, con un cupo fragore di ferraglia.
- Uccidetelo! urlarono i guerrieri di Famagosta - Nessuna compassione per quel cane, Capitan Tempesta!
La duchessa scese da cavallo, tenendo in mano la spada, la cui punta era insanguinata e s'avvicinò al turco che si era alzato sulle ginocchia.
- Vi ho vinto, - disse.
- Uccidetemi rispose Muley-el-Kadel. - È vostro diritto.
- Capitan Tempesta non uccide chi non può difendersi rispose la duchessa. - Siete un valoroso e vi dono la vita.
- Non credevo che i cristiani fossero così buoni rispose il Leone di Damasco, con voce fioca. - Grazie: non mi dimenticherò mai della generosità di Capitan Tempesta.
- Addio, signore e vi auguro di guarire presto.
La duchessa stava per dirigersi verso il proprio cavallo, quando delle urla selvagge la fermarono.
- Morte al giaurro! - urlavano parecchie voci.
Otto o dieci cavalieri turchi giungevano a corsa sfrenata, colle scimitarre alzate, per piombare addosso a Capitan Tempesta e vendicare la sconfitta del Leone di Damasco.
Un grand'urlo di furore si era alzato fra i cristiani di Famagosta:
- Vili! Traditori!
Muley-el-Kadel, con uno sforzo supremo, si era alzato, pallido, ma cogli occhi fiammeggianti d'ira.
- Miserabili! tuonò, rivolgendosi verso i suoi compatrioti. - Che cosa fate? Fermatevi o domani vi farò impalare tutti, come indegni di appartenere a guerrieri leali e valorosi.
I cavalieri si erano arrestati, confusi e spaventati. In quel momento due colpi di colubrina rimbombarono sul bastione di San Marco e un nembo di mitraglia li colpì, gettandone a terra sette insieme ai loro cavalli.
I superstiti si erano affrettati a volgere le spalle, fuggendo a gran corsa verso il campo turco, fra i fischi e le risate dei loro compagni, che non approvavano quell'intervento improvviso.
- Ecco la lezione che vi meritavate disse il Leone di Damasco, mentre il suo scudiero lo sorreggeva.
Le artiglierie turche non avevano risposto ai due colpi di colubrina dei cristiani.
Capitan Tempesta, che aveva ancora la spada in mano, risoluto a vendere cara la vita, fece a Muley-el-Kadel un cenno d'addio con la sinistra, rimontò sul suo cavallo e s'allontanò verso Famagosta, mentre i guerrieri cristiani lo salutavano con un vero uragano d'applausi.[...] [Capitan Tempesta, E. Salgari, Donath Editore, Genova, 1905, Capitolo III]
[...] Muley-el-Kadel si assicurò prima che non vi fosse alcuno intorno alla torre, poi seguì l'arabo attraverso le rovine, sempre accompagnato dai due schiavi e dai cani.
Appena si trovò nella casamatta, che era ancora illuminata dalla torcia, il turco si sbarazzò del mantello e dopo d'aver scambiato con Perpignano un cortese saluto, s'accostò rapidamente al lettuccio su cui si trovava la duchessa d'Eboli ancora sveglia.
- La donna che mi ha vinto? - esclamò con una certa commozione. - Vi ravviso, signora!
Si era curvato posando un ginocchio a terra, come un gentiluomo europeo, fissando i suoi occhi nerissimi in quelli della duchessa.
- Signora, - disse con nobiltà. - Non è un nemico quello che vi sta dinanzi: è un amico che ha avuto l'occasione di ammirare il vostro straordinario coraggio e che non serba alcun rancore di essere stato vinto da una giovane donna. Comandate: il Leone di Damasco è pronto a salvarvi ed a pagare il suo debito.[...] [Capitan Tempesta, E. Salgari, Donath Editore, Genova, 1905, Capitolo VIII]
Nelle foto: Eleonora d'Eboli, illustrazioni di Alberto Della Valle. Capitan Tempesta, E. Salgari, Donath Editore, Genova, 1905.
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