Le due tigri |
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Ah… l’India misteriosa… scrigno esotico di fascinosi segreti e perigli avventurosi… levatrice di racconti quant’altre lande mai. Saremo forse noi a tracciarne la charta obscura? Certo non di questa lena. La nostra minuta compagnia procedeva lenta tra le fronde. Svogliata piuttosto, e più che a cagione di cotesta canicola tropicale – importuna davvero - per la cocciuta vaghezza del signor La Ferlita che sovente arrestava il passo. Il suo sguardo, luminoso come sempre, ma di solito velato da cortine di broccato, s’indorava a singhiozzi, e parea brace eccitata da mano annoiata che null’altro ha da pensare se non rimestare con stizza nella stufetta di fine maiolica della sua sala. E perdoni il lettore l’incalzare d’immagini così poco refrigeranti, ma in tanto evaporescente gocciolio di fluidi corporei certo se ne deve defluire via, e forse tra i primi fumi, pure buona parte della meninge. Cosa che evidentemente non disturbava affatto il signor La Ferlita, impeccabile e molto distinto nel suo completo di lino chiaro, ancor terso a dispetto del peregrinare per verzura su cui spiccava l’immacolata cravatta di seta, dono – e trofeo imperituro di passeggera passione, spettegolano gli informati nei salotti alla moda – della bella e civettuola figliuola del re di Svezia. Il signor La Ferlita aveva sostituito nel suo sguardo di dongiovanni, al cobalto del cielo di Catania, i meravigliosi arcobaleni floreali e i peristili della giungla bengalese. Si chinava – e con quanta eleganza - al cospetto di fiori stravaganti e con le dita curate protette da morbidi guanti sfiorava appena quei petali violetti e s’incorollava il naso di eccentrici effluvi e forse già pensava al collo d’avorio di cotal duchessa attorno al qual tessere graziosi tranelli d’amore – per dir così. Con fare fatuo passava poi ad altro bocciolo ostentando un interesse che in realtà non aveva. Poggiava sulla spalla il bastone facendo rifulgere la real tigre rampante in argento laccato e avvicinava il naso aduso a molli fragranze. – Non lo tocchi, sahib! si raccomandava la nostra guida indigena, un bellissimo indiano bengalino la cui curata barba appena azzimata inghirlandava di saggezza selvaggia il cipiglio vigoroso di chi nella vita non aveva avuto a far solo soirée di gala e frivole tolette. – E perché mai, signor Tremal-Naik, l’ossequio alla bellezza dovrebb’esser la principale occupazione d’ogni uomo di gusto e intelletto, in ogni istante della sua giornata. - Siamo a caccia sahib. Di un nemico più malizioso del cobra-capello. Quel fiore è vorace poco meno del gaviale. Certo ha fauci più minute, ma tutte ricoperte di lanugine mortifera. Ce ne sono migliaia attorno alle rovine di Tughlaqabad.
- Non devon esser poi così malvagi questi thugs se si circondano di tali terribili incanti, no? Tremal-Naik ancor più conficcava lo sguardo tra l’intrico della giungla. Non una parola da parte sua, ma il ruggito sommesso della sua fedele tigre Darma, faceva eco rispettoso alle lagrime e al sangue che quella masnada maledetta aveva spillato negli anni al suo padrone. Rivoli salmastri e scarlatti che avevano segnato, profondi, crepe e rughe su quel viso pure ancora invitto. E il signor La Ferlita? Non aveva forse anche lui sofferto e perduto tanto, quasi tutto? Non lo direste mai a osservare la linea perfetta delle basette o il filo impomatato a strale sbarazzino dei bei baffi. L’aura immobile, al pari del passato, non tiranneggiava il suo incarnato né scomponeva la sua bionda mise alla moda. E tra radici ritorte, tafani e fiere inaudite si muoveva leggiadro come panni da corredo stesi al sole primaverile della sua Catania, astro mondano di cotesta sala verde come a casa sua, nel foyer del San Carlo.
La Sala Girostella dell’Albergo della Pace era tutt’un florilegio di porpora e poltrone, corone e coroncine di tutt’Europa, paffuti polloni – l’orgoglio di maman! medaglie al valor cortese, araldici paranchi, crestomazia di fasce e coccarde, dignitarie pulegge, pettegolezzi da deputato e lazzi galanti, giostreggiare di gran dame in filari complessi di carillon, trottolare di cavalieri del lavoro in marsina da torneo. Insomma un tourbillon in pompa magna di tutto il bel mondo. Stasera si festeggia signore e signori! questa gioia tutta rilucente di glorie e progresso, la Firenze bella! Che feste, che incontri, che splendor d’arte e rapimento di sensi, o Firenze regina, tutt’Europa t’invidia! E corteggia – come si conviene - sotto le tavole imbandite dei pranzi ufficiali, e sussurra con le voci e i vezzi dei suoi Galeotti patentati all’orecchio di Madama, proposte ardite di flirt e avventure licenziose. La bella Italia è giovane e florida d’avvenire e ha addosso gli occhi dei signori governi e soprattutto dei gran banchi e istituti di finanza che con sguardi e cambiali tentano d’intrigarla. Tra tanta selva di cicisbei, farfalloni e libertini imbrillantinati in podio, un signore si muoveva di ben altro passo. Anzi due son i singolari signori, ma per ora mio lettore concentrati sul primo. Il secondo tornerà utile poi e solo quando vorrà lui che se intende restar nell’ombra, è impossibile notarlo. Dicevo del primo, dunque. Un superbo orientale, per complessione e portamento, principe senza alcun dubbio, di lignaggio antico per di più, la pelle di bronzo, il capello una foresta arruffata d’ali di corvo e gli occhi due ugole da diavolo che dardeggiano fiere abisso e fuoco. Silenzioso e agile come un pantomimo s’aggirava per l’ampia sala e correva con lo sguardo dietro gli arazzi medicei e lungo gli affreschi del Michelangiolo e più aggraziato d’un ballerino dell’Opéra s’acquattava come un gatto a tastare coi ruvidi polpastrelli delle sue mani da gigante i marmi perfetti, così nitidi che raddoppiavano capovolta l’immagine del ricevimento. Ma chi è mai quel signore tanto originale, si chiede la viscontessa de Rancy. Solo un principe barbaro di qualche isolucola della Malesia, le risponde indifferente il conte Colli. Che eccentrico - non trova? Pare corteggi la jeune fille del signor Grandi – alla sua età, che diamine! E con la stessa tecnica del gallo cedrone, lì accovacciato ai suoi piedi. E porta il medesimo pennacchio rosso sulla testa! Conte San Damiano lei è incorreggibile. E che stravaganza d’abbigliamento. Non so, madame, quella casacca azzurra a ricami dorati è così kitsch! Però i bottoni in rubino… Ma osservi quelle brache, così ampie! Per quei calzari a riccio farei follie… Ma consideri quegli orecchini di perla, in un uomo, per carità! Un signore che ha l’impertinenza di ostentare un turbante candido adorno del diamante più sfacciato che si sia mai visto nei salotti in voga questa stagione – spilla preziosa per un pennacchio da cedrone, non trova signor conte? bhé, direi vi ha vinti tutti in ricercatezza, signori miei! Il principe malese non si curava punto degli sguardi ardenti di quelle belle dame, tantomeno dei cipigli invidiosi dei loro opulenti e fiacchi corteggiatori. Era a caccia quella sera, aveva percorso mezzo mondo seguendo il sole, solo per la sua preda. Non bruciava d’amore il suo petto, ancor sì possente a dispetto delle tante estati passate. D’ardore piuttosto, e sogni di giustizia e libertà spiravano impetuosi come tifoni in quell’animo temprato da assalti e abbordaggi nei mari d’oriente. Il nemico di tante battaglie era di nuovo in agguato, solo nascosto tra altre fronde. Ma il pericolo era sempre lo stesso. I tamburi di morte di Kali erano tornati a suonare sinistri nella giungla e la loro eco l’aveva condotto fin là, in cotesta terra a occidente, l’Italica penisola. Ma il principe pirata non aveva mai mancato una preda e l’ultima trama di morte della Nera Madre sarebbe presto stata sfilacciata dalle zanne della tigre della Malesia, così giurava Sandokan!
Nonostante l’indolenza indiscreta del signor La Ferlita giungemmo infine presso le rovine di Tughlaqabad. La notte dominava tutto incontrastata, le ombre orfane persin del più pallido chiaror di luna, si univano l’un l’altra in un sabba d’inchiostro impenetrabile. La leale belva della nostra intrepida guida, per fortuna, ci aveva preceduti tra l’erba alta evitando d’istinto terribili trabocchetti o scampando in vece nostra con incredibilissima agilità, a calappi fedifraghi. Dei tanto famigerati thugs ancora non avevamo fatto la spiacevole conoscenza, sempre grazie ai talenti di Darma che per via se n’era divorati un paio. Il signor La Ferlita, ormai prossimo alla meta, stringeva ora forte il frassino del suo bastone da passeggio – se ben ricordo ennesimo pegno d’amour serotino largitogli da un’eccentrica contessa rumena per proteggerlo dalle voraci rivali, scherzava la mia Tepestina, come ricordava Giorgio ancora con affetto. Il suo sguardo parea men vago del solito, il volto tutto rivolto a quelle rovine d’antichi e pagani fasti. La sua posa rispecchiava con classe d’attore vero il salto cristallizzato in un attimo assoluto della sua real tigre d’argento. Ma forse la mente gli tornava in quell’istante a quell’altra notte quando osservava in colpevole silenzio la salma della moglie adagiata sul catafalco del dottor Merli, medico legale di fiducia del Circolo. E mentre il bisturi incideva e scoperchiava una pelle resa aliena dalla malattia – brutta bestia il colera! sentenziava clinico il Merli spannocchiando filetti di muscoli scarlatti alla povera Erminia, a Giorgio, ineccepibile nel suo completo bianco, parea pur di dover sentir qualcosa, lì in piedi a guardar lo scempio d’una donna che aveva sposato e che gli aveva persin generato un erede. – Finirà che la Sicilia tutta apparirà più trapassata d’un camposanto! Grufolava il dottore, le lenti appannate dai miasmi dell’intestino della fu signora Ruscaglia in La Ferlita. E Giorgio niente, non un sospiro, non una lagrima, non una fitta al cuore. L’unica colpa che sentiva, come se tutta l’orbe incombesse sulle sue spalle, era proprio quell’assenza ingombrante di sensibilità. Per tutti gli anni del matrimonio, brigato peraltro da esigenze di carriera e borsellino, le sue arti da divo dell’impostura, tanto prezzate per le ambascerie del Ministero e soprattutto per le meno chiare missioni del Circolo, gli tornavan utili a far parer ciò che non era, a far palpitar ciò che in realtà giaceva più rigido d’una spoglia. – E quando tutti saremo nota statistica, allora potranno fare poi i comodi loro! Sibilava il Merli inspirando tutto d’un fiato l’aria rafferma del laboratorio prima d’immergersi sotto le volte della cassa toracica. Solo una volta Giorgio s’era combusto tra le vivide vampe d’una passione veritiera. Dinanzi a l’erma già funeraria della Contessa, livida e diafana come una falena, tutto il suo animo s’era scompigliato ai moti di quella regina di ghiaccio che mai si concesse, dagli occhi bollenti come astri febbrili in accelerazione verso il proprio sfarzoso ponente. E lui le era corso dietro, bramando quella stessa sua fine come il bimbo il suo primo vagito. Solo quando Erminia s’era ammalata d’una medesima passione, Giorgio avea avvertito, ma come una comanda del Ministero più che come moto di sensibilità sua, forse anche retaggio del siculo sangue, l’urgenza di rifar proprio uno stato, quello di marito e padre, che mai in verità gli era appartenuto, se non nel frontespizio dell’album delle foto. – L’aveva pur detto quel tal ministro. L’Oriente è sporco e malato. Una piaga. Diavoli gialli. Ci ammorberanno tutti! faceva eco, rimbalzando tra sterno e ventricoli, il confuso pensiero del dottore. Una maledetta malattia del sangue s’era portata via la Contessa e quando il suo feretro aveva incrociato alla stazione l’allegra famigliuola La Ferlita, parea avesse preteso da tutti loro com’estremo voto la felicità stessa, nel suo sembiante almeno, per quanto artefatto fosse. Giorgio non riusciva più a fingere davanti ai due unici spettatori della sua esibizione. Come un sipario nero, era calato il lutto di lei nel suo cuore. Lui era tornato ad essere il vuoto velo di sempre, ma in più con la trafittura del ricordo di quella sua unica, malata, perversa, folle, verginea verità. – Santissimo Crocifisso! Gridava il Merli e spezzava, nel levarsi di scatto dall’incavo del cadavere, la costola seconda. – E’ impossibilissimo! Proseguiva esanguinando. Giorgio, destato appena dai suoi lugubri pensieri a cagione di quel secco scricchiolio d’ossa, si sentiva vagamente in dovere di chieder spiegazioni, ma già il dottore gl’indicava, più pallido della salma, l’antro in ombra del semi-divelto torace. L’occhio acuto di Giorgio scrutava assente quella natura mortissima finché i barbagli della lampada a gas illuminarono un aureo riflesso. In un unico sussulto di memoria, respiro e passo, Giorgio si trovava ora accanto alle spoglie muliebri, conficcava sicuro il frassino del suo bastone da passeggio tra i due emisferi semichiusi e con orribilissimo cigolio d’ante li scardinava di netto. L’ora esposto muscolo cardiaco, paonazzo come un’arancia andata a male, ostentava un laccio di seta bianco avvintogli attorno a fiocco sul quale campeggiava il ricamo d’una corona di conte. Il Merli, che pur lavorava da anni per il Circolo e di morti ne aveva visti a catinelle, si segnava pio con la croce perché lui i morti li vedeva solo quando ormai lo erano divenuti, morti, e manco si credeva che si potesse usare tanta violenza su un altro essere umano, anche se ormai cadavere. Giorgio, abbandonato il bastone, slegava convulso il laccio dal cuore e sentiva intanto un altro laccio stringere più forte il suo, di cuore. Spiegatolo davanti agli occhi lo riconobbe senza più alcun dubbio. La stessa corona. La stessa elegante calligrafia in un’unica molle linea d’onda che tempo prima gli aveva fatto dar di giro alla testa. <<Vi amo. Parto per l’India. Addio.>> Il passato gorgo di brace aveva catturato di nuovo, impetuoso, l’animo di Giorgio. Il dottore non poteva aver assicurato il laccio al cuore sotto i suoi occhi. Ma allora? Come era stato possibile trovarlo lì, dentro il corpo di sua moglie? Un chirurgo più abile aveva forse aperto e ricucito la salma prima dell’ispezione senza segni lasciare? Possibile. Non si era forse lui stesso imbattuto, durante l’affaire Rawhide in California, in una raffinata e avveniristica pratica tolteca di incisione tramite diamante e sutura attraverso una lente capace di concentrare come mai prima i raggi del sole? Anche mentre avviava il processo di analisi e la sua accurata istruttoria mentale inventariava indizi e prospettava ipotesi, Giorgio sentiva gorgogliargli nell’intimo, giù nelle profondità della sua ossessione, l’unica vera domanda, che arroventava di piressia il centro di tutto il suo essere, l’anelito a riprendere quella forsennata caduta verso un sentire palpitante, l’indagine fatidica quant’altre mai: – Lei è viva?
Il principe malese seguiva un aroma. Sentito in sogno una sola volta, era tuttavia per le sue nari allenate come il fascio d’un faro in mezzo al tramestar di tempesta. Per quanto impossibile lo si possa credere, mascherato nella sala Girostella tra parfums de Paris, ciprie sontuose, bollicine di champagne, e quant’altro si possa immaginare esser presente in un salotto ove tutta Europa si sia data convegno, il principe aveva scovato la sua aerea traccia e l’incalzava ora da presso più fatale d’un felino d’oriente. Sandokan tendeva tutti i suoi sensi di fiera pronto a percepir ogni minimo sentore di pericolo, conscio per istinto e costume che più si stringe la preda in trappola più essa può divenir feroce. Senza contar poi il fatto che alla Natura spesso piace baloccarsi e mischiar le parti delle sue creature e tramutar la preda in predatore e il predatore in preda. Un gioco che Sandokan aveva appreso fin da cucciolo e in cui eccelleva quant’altri mai. A quel pensiero caro di lui fanciullo intento a disputarsi la vita tra le insidie della giungla sopraggiunse di seguito l’altro, più tetro, che da tempo gettava l’ombra sulle giornate del principe. Quanti anni eran passati, quante cacce, quante battaglie? Quante vittorie e quante morti gravavano con la propria mole d’avventura passata per sempre, sul suo cuore? Non c’era ancora pirata, soldato o brigante che potesse superarlo nella corsa, anticiparlo nel balzo o costringerlo a terra. Eppure… Sandokan esitava. Si avvicinava circospetto a quel pensiero. Lo circumnavigava tenendosi acquattato il più possibile e sollevava il capo per osservarlo solo di lontano e subito tornava a nascondersi, quasi temendo quell’antro di giungla – è mai possibile? Per concentrarsi su ciò che aveva da fare, tornava con la mente al sogno di quella notte malese, quando lo spirito di Marianna, il suo indimenticato amore, gli era apparso per metterlo in guardia del pericolo. Sandokan ne era certo, benché Marianna, la chiarissima figura quasi invisibile nella nivea eccellenza aurorale della sua luce, non avesse proferito nemmeno un sussurro. Né avrebbe potuto, ché la Natura è inflessibile nei suoi proclami e non è concesso agli spiriti di parlar senza tramiti a chi ancora abita nella carne. Eppure lei era lì, nel suo sogno, muta ma testimone, con la sua presenza, e forse - Allah non voglia - col rischio d’esser lesa, del pericolo che incombeva. La giungla ove Sandokan giaceva nudo era stata sostituita nel sonno da inganni della prospettiva che proiettavano sulla superficie di chiuse pareti boschetti e campi occidentali. Il fruscio lieve del fantasma di lei l’aveva destato e la prima cosa che aveva veduta aprendo gli occhi era quello stesso soffitto affrescato d’azzurro con astri in girotondo, che osservava in quel momento nella sala dell’Albergo della Pace. A differenza d’ora però, il salone era deserto e buio e pervaso dell’esalazione dell’incenso del sacrificio, caro al maledettissimo culto della dea Kali. Subito Sandokan s’era messo in allarme chiamando a raccolta forze e volontà, pronto a battagliare, anche con pugni e morsi, ché oltre a esser nudo era pure disarmato. Sapeva bene che l’immagine della sua Marianna non gli avrebbe parlato, ma con lo sguardo cercava di discernere tra quella polla d’albore il carissimo volto. E come una face in balia del vento che annuncia tempesta, aveva visto quell’amato chiarore ondulare dolorosamente e quasi spegnersi e n’aveva ricavato una vivida impressione di pena per l’attesa del pericolo inevitabile e vieppiù incombente. Poi aveva scorto un pertugio socchiuso e segreto da cui doveva provenire la corrente assassina e l’incenso mortifero. E verso quel buio che sembrava doverla inghiottire, la luce di Marianna era attratta, ma non per ciò si struggeva, piuttosto la sua attenzione era tutta per lui, che le si affannava intorno, inutilmente, cercando di salvarla. E più non riusciva e più l’affanno cresceva, il respiro sempre più in assillo, il fallimento un peso sempre più grave sopra il petto. Infine la porta s’era fatta tombino e la luce tutta, in una vertigine, era scolata via. Nell’improvviso risveglio tra le stoffe arruffate della sua camera regale, l’affanno era rimasto, anzi aumentato. E tempo e dolore Sandokan aveva dovuto spendere per riacquistare il dominio sul proprio respiro. Come doveva fare ora che si avvicinava, sotto le volte dell’Albergo della Pace, alla fine del viaggio che dalla sua amata Mompracem l’aveva condotto per miglia di mare e terra lì, nella capitale italiana, dinanzi a quel varco celato tra una selva dipinta e un tendaggio di porpora. La porta era chiusa. Sandokan appoggiava entrambe le mani sulla soglia e inarcando tutto il torso come una tigre rampante, digrignava i denti e scagliava tutta la sua vigoria contro l’ostacolo. La porta usciva dai cardini con un rumore secco. E chi tra i damerini annoiati intorno, intenti a sorseggiare champagne, s’era accorto della scena, aveva lesto voltato lo sguardo affettando indifferenza nella speranza che quella furia non li eleggesse per capriccio a preda e sparisse tra le ombre senza mai tornare.
Ci muovevamo tra le rovine dell’antico tempio di Tughlaqabad più silenziosi di un sipario e mettevamo tra noi e il mondo ogni più piccolo relitto o oscurità che riuscivamo a trovare, in bella fila indiana, Tremal-Naik, il signor La Ferlita e io, come pulcini giudiziosi dietro la nostra chioccia tigrata. Il volto del Signor La Ferlita parea smarrir per via, nel procedere, tutto il suo amabile sfavillio, e il suo portamento, di norma sì accurato, tradiva una certa qual irrequietezza tanto che solo in quel momento, dall’inizio della nostra sortita nella giungla indiana, mentre stringeva il bastone da passeggio, goccioline di sudore gli lambivano la linea delle sopracciglia. Giorgio non poteva non rammentare di continuo le parole di Cristoforo Neri, il Magnifico Rettore del Circolo, il suo maestro, apparso quella notte come dal nulla nel laboratorio del dottor Merli. – La contessa, Nata come la conosci tu, cito dal suo fascicolo: BATTEZZATA HELENA PETROVNA/SPOSA NIKIFOR VASSILYEVICH BLAVATSKY/UN UFFICIALE DELLO STATO RUSSO MOLTO PIU’ VECCHIO DI LEI, e di chiunque altro, pare, OCCULTISTA/AVVENTURIERA/FILOSOFA/VISIONARIA/SPIA/LETTERATA/ASSASSINA, e naturalmente, incantevole seduttrice. - E’ viva?
- Il referto medico stilato dal tuo amico, il dottor Rendona, parla chiaro: decesso per complicazioni dovute a etisia.
- So che ne soffriva, la poverina.
- Dal suo fascicolo: MORTI ACCERTATE 44/PRESUNTE 99. Secondo i nostri analisti, potrebbe esser stata lei a scatenare l’epidemia di colera nei porti della Sicilia, MORTI: FUORI SCALA.
- Mi par impossibile. Un groppo gli serrava la gola. Nata, la sua Nata, l’unico trasporto che mai l’avesse afferrato con la forza e l’asprezza della verità. Era mai possibile? Che fosse due volte colpevole, lei, della morte della moglie? Che fosse viva?
- Il Circolo ha bisogno della salma, trafugata dal marito all’ospedale di Catania grazie all’immunità diplomatica e portata, pare per certo, in India, nelle rovine di Tughlaqabad. Per qualche barbaro rito pagano che ha a che fare con la setta dei thugs, tipi pericolosi, dicono. - La troverò.
Sandokan procedeva lento, attento a non permettere al cuore di annunciare il suo arrivo col troppo insistere dei battiti. Al termine di una ripidissima scalinata in porfido rosato, un arco acuto sorretto da due colonne diseguali per forma e volume, raffiguranti l’una un leone ruggente, l’altra una volpe sonnacchiosa, introduceva in una saletta illuminata appena da una lucerna a gas. Quasi fluttuando a bordo dei suoi calzari e senza rumore produrre, Sandokan si muoveva da un’ombra all’altra come uno spettro ballerino con l’intento di sporgersi da dietro una colonna e osservare non visto l’interno della sala - da cui proveniva a tratti il suono di passi nervosi - quasi certo di trovarvi il nuovo misterioso signore della morte dei viscidi thugs. Il pirata s’approcciava impercettibile al suo appostamento, ma – da non credersi! il signore all’interno della stanza si voltava verso la sua posizione come l’avesse udito a dispetto dell’arte predatoria di Sandokan. Alto di statura nonostante la posa curva da vecchio, l’uomo indossava l’alta uniforme da parata della cavalleria russa, bianca come neve e nera come il cuore del diavolo, uno sfarzoso mantello in ermellino e una lunga sciabola dall’elsa d’oro e rubino. Il volto, scavato dall’età, parea per colorito e rughezza la pelle d’un elefante centenario e la voce, quando parlò, raschiò tutta la spina dorsale di Sandokan, fino ad arrivare a torcerne l’anima stessa. – Signor Neri, finalmente, dovrà darmi conto di questo suo risibile ultimatum… ma lei non è – l’ufficiale russo non aveva terminato la frase che il pirata s’era gettato d’un balzo contro di lui, sicuro di sorprenderlo e sopraffarlo. L’ufficiale, senza ciglio battere, l’aveva invece evitato e quasi parea fosse scomparso tanto s’era mosso repentino. – Lei non è colui che mi ha dato convegno. Non credevo che il Neri fosse così stupido. Un sicario. Contro di me.
Sandokan s’era voltato, pronto a riprendere l’assalto. - La Tigre della Malesia non è il sicario di nessuno. Uno spirito in sogno m’ha indicato questa stanza segreta come la tana del nuovo schiavo di Kali.
- Così il Circolo è ricorso al suo oniromante per reclutare il mio assassino. Il leggendario Sandokan. Ridicolo. Ridicolo davvero.
- Ti impedirò, come già feci coi tuoi predecessori, di tramare morte in questa e in ogni altra landa della terra. Sandokan digrignò i denti in segno di sfida e ruggì le restanti parole.
- Sei prossimo alla tua tomba. Un sorriso irregolare attenuò per un attimo l’astio iroso del russo. – Invero, barbaro, non me ne discosto mai più del necessario. Ma a differenza tua posso entrare ed uscirvi a mio piacimento. Con un fruscio d’ermellino l’ufficiale era addosso a Sandokan. Mai il pirata aveva visto una tal velocità. Le dita fragili e avvizzite del russo gli ghermivano la gola in una morsa assurdamente invincibile. Sandokan prese a tempestare di colpi precisi braccia, torso e viso, ma nulla parea intaccare l’ufficiale il cui sorriso sgradevole era ora spalancato e mostrava una perfetta e candida dentatura. A Sandokan ricordava il ghigno d’uno sciacallo. I suoi artigli gli laceravano la carne e spremevano via la vita. Sandokan provò a far leva per liberarsi, ma tutta la sua forza, tutta la sua volontà non sembravano bastare. L’ufficiale rideva ora, un riso sommesso e demente. Le tempie di Sandokan pulsavano sempre più veloci, sempre più forti, come i tamburi di morte dei thugs. Assordanti. Un artiglio invisibile all’improvviso gli afferrò il petto e una fitta lancinante gli squarciò il cuore – No, non puoi tradirmi adesso. Sandokan non sentiva quasi più braccia e gambe. Il sorriso del russo parea precipitargli addosso. Riuscì a raggiungere il kris che teneva celato tra le pieghe della fascia. Lo sollevò senza forze, cercando di sfruttare lo slancio dell’ufficiale. Il russo si impalò, le fauci spalancate, sul kris. Con un grido di rabbia bestiale scaraventò Sandokan contro il muro. L’impatto tolse l’ultimo fiato al pirata che giaceva immoto sul tappeto. L’ufficiale tentava di estrarre la lama, ma le sinuosità rendevano l’operazione complicata e particolarmente dolorosa. Tra urla di collera a Sandokan, prima che gli occhi si chiudessero, era parso che il russo svanisse in un dileguarsi d’ombre e fumo. Che strano nemico. Chissà se l’ho vinto? Certo alla fine devo arrendermi a te, tempo che fuggi. Poi la morte se lo portò via.
Sulle pietre antiche che formavano il pavimento del tempio dedicato a Kali fin dai tempi più remoti, giaceva il corpo di Tremal-Naik. Tutt’attorno, come raggi d’un sole tragico, erano sparsi i cadaveri di decine di thugs. Darma, ruggendo vendetta, fronteggiava un giovane manti che la teneva a distanza roteando il feticcio d’un elefante e alla fine la schiacciava, salmodiando logori lemmi, sotto il peso della sua malia. Io non vedevo il signor La Ferlita dall’inizio dello scontro, ma non dubitavo punto che, svicolato in un cantuccio s’era dato da fare a sfoltire inavvertito le fila dei nemici e proprio in quel momento, forse da dietro quel rudere, s’avvicinava al manti per sorprenderlo in svantaggio e trafiggerlo. Cosa che puntualmente avvenne. Il signor La Ferlita non indugiò neppure un secondo a pulir del sangue spillato la fine lama che era l’anima nascosta del suo bastone da passeggio, cosa del tutto impensabile per le sue abitudini. Si dirigeva invece a grandi passi verso il pesante sarcofago nero che dominava da una predella in roccia grezza la cella del tempio. E più s’avvicinava più Giorgio sentiva risucchiarsi giù dentro quell’oscurissimo feretro. Al fine è giunto il momento fatale, si diceva. Amatissima Nata, mi fu impossibile recarti allora, alla tua morte, l’estremo saluto, bacerò ora le tue labbra fredde e confesserò loro tutto il mio amore e con te giacerò per sempre. Se la vita scriteriata non volle, che sia almen la morte a congiungerci, io e te, in fugace, immortale unione. A Giorgio parea veramente di iniziare a vivere proprio nell’attimo in cui decideva di rinunziare alla vita fors’anche perché in quella vita non s’era mai impegnato poi tanto e v’era trascorso sopra come un fantasma. Quanto agognava spegnersi accanto all’unica fiamma turchina che gli aveva incendiato le vene! Ma poco prima di rivolger contro se stesso la lama del bastone sopra il cadavere della sua amata – anche ora che narro ciò che vidi non posso esimermi dal segnarmi più e più volte nella speranza che la croce di Nostro Signore possa proteggermi dall’orrore che ti dirò, lettore mio – un portento massimamente blasfemo ebbe a verificarsi. Dal velluto carminio della bara nera si sollevò lei, come presa da infernale vento che spirasse dal fondo dell’oltretomba. La contessa Nata, al secolo Helena Blavatsky, si ergeva davanti a Giorgio, marmo pagano scalpellato da gelo e grazia divine, pallida e trasparente come la più fine organza e terribile con quegli occhi dilatati che velavano appena burrasche di corrotta bramosia. Senza che lei proferisse verbo, Giorgio era già in ginocchio ai suoi piedi come vittima al patibolo. Nata lo degnò appena d’uno sguardo. – Sono vostro. Ora e per sempre.
Sandokan sentì una scossa elettrica fortissima che lo fece sobbalzare fino a catapultarlo dalla branda sul freddo pavimento. Il petto era in preda a fiamme tonanti e solo a costo di durissime fatiche riusciva a strappare bocconi d’aria e parevagli d’affogare tra flutti invisibili circondato da quelle pareti celestine di maiolica atlantidea. Una sorta di lemure albino degli abissi lo scrutava con i suoi fari d’occhi e esibendogli davanti un buffo orologio ticchettante gli saltellava intorno frenetico, senza dar l’impressione di volergli fare del male. – Tranquillo Principe, l’operazione è riuscita, la folgore elettrica l’ha riportato tra noi. La vista andava lentamente ristorandosi e Sandokan ridisegnò a se stesso tutta la scena. Era nella stanza di un sanatorio e il lemure parlante altri non era che un dottore nascosto da lenti spropositate e l’orologio probabilmente un qualche occidentale marchingegno collegato a quel covone di elettrodi, cavi e dinamo scoppiettanti aggrovigliati attorno alla branda che doveva averlo ospitato fino a pochi attimi prima. Ma non erano soli nella stanza. Il singolare signore che si aggirava invisibile nella sala Girostella aveva deciso infine di fare la sua entrée. – Perdoni l’etichetta sbrigativa del dottor Volta, esimio Principe, è un onore per noi averla cosciente. - Ero morto.
- Sì, assolutamente lo era. Ma l’intelletto inimitabile del nostro sommo scienziato, la cui permanenza tra i vivi è peraltro segreto segretissimo di stato, ha rimesso in moto la macchina, come ama dire lui stesso.
– Ciò è senza dubbio impossibile!
– Eppure lei, principe Sandokan, è senza altrettanto dubbio in piedi di fronte a me e parla e pensa.
– I suoi modi sono esemplari signore, tuttavia non si è ancora presentato. – Perdoni la mia leggerezza principe, ma l’urgenza del momento impone rapidità. Il mio nome è Cristoforo Neri, umile funzionario del ministero degli esteri e segretario della Reale Società Geografica. Sandokan stava per chieder lumi circa il suo peculiare incontro quando la luce, in uno scatto, saltò e il ronzio della macchina del dottor Volta si spense sibilando. – Come le dicevo, principe, l’attimo è decisivo. Tra breve, da quella porta, potrebbe comparire lord Blavatsky, l’ufficiale russo con cui già lei ha duellato e che purtroppo, al pari di lei, è sopravvissuto, o un nostro agente al momento non più così nostro. Entrambi hanno l’unico scopo di assecondare i capricci della loro algida amante, la contessa Nata, ultima vergine nera della dea Kali. Tra questi rientra la mia morte e l’illecita sottrazione dell’invenzione del dottor Volta. Tenuto conto del dolore e della morte che simile atto potrebbe in seguito causare in tutto il globo, speravo che lei, magnanimamente, potesse ergersi a nostro campione. – Almeno ora me lo domanda in faccia e con garbo, senza manovrarmi verso una trappola di cui non sapevo d’esser tagliola. – Il suo acume le fa onore e mi costringe a coprirmi di vergogna e, se ciò la aggrada, potremo in seguito dirimere la disputa venutasi a creare tra di noi al modo dei gentiluomini, ma ora preme prender posizione! In quel preciso istante uno scoppio scardinò la porta e la fece volare al di là della stanza come fosse un foglio di carta velina. E quasi staccò di netto le teste a Sandokan e al Neri. Quale oscurissimo e terribilissimo nemico avrebbe varcato quella breccia appena apertasi? Quale ultima battaglia attende la Tigre della Malesia, abbattuta ma non ancora doma? E l’anima fatua e immortale di Giorgio è davvero perduta per sempre? Questo e molto altro ancora scoprirai, paziente lettore, nel seguito di questo mio resoconto a dispense.
FINE