Marabù |
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Non eravamo sul delta del
Gange, in quell’immenso labirinto di corsi d’acqua divisi da selvagge isole
coperte dall’intricata vegetazione tropicale. Non stavo navigando nelle
Sounderbans popolate dalle tigri del bengala e dai Toughs. A bordo di una
carretta del mare con bandiera di Panama, risalivo l’estuario del fiume Cochin,
per andare a scaricare cassoni di macchinari provenienti dal Nord Europa e per
imbarcare casse di the, sacchi di pepe e manufatti in cotone.
Quel pomeriggio il San Giorgio navigava
faticosamente contro la corrente del fiume, contro il vento del monsone che
stava per finire, sotto piovaschi brevi e furibondi. Ero di guardia in plancia,
assieme al pilota grasso e quasi nero di pelle, che impartiva ordini al
timoniere in un perfetto inglese oxfordiano. La prora della nave fendeva
l’acqua scura del fiume. Ammassi galleggianti di piante acquatiche e di
ramaglie che si erano impigliate nelle lunghe radici fluttuanti parevano
venirci incontro in una sequela interminabile. Da questi isolotti che talvolta
erano rovesciati e sconquassati dalla nave, ma più spesso soltanto spostati e
parevano poi correre lungo le fiancate, si alzavano torpidi voli dei pesanti
uccelli della foresta. Marabù e nibbi, ibis di vari tipi e una miriade di
piccole specie a me sconosciute.
“La giungla è identica a
quella dei libri di Salgari, ” avevo scritto, prima di montare di guardia, in
una lettera a mio padre. “Un’India che ho lungamente fantasticato da bambino su
quelle pagine che evocavano colori e profumi d’oriente, insieme ai sogni di
avventure romantiche; quei libri che mi hai regalato e mi hanno fatto
scegliere, senza incertezze o dubbi, la carriera del mare. Ora mi pare che i
miei sogni di adolescente si stanno realizzando .”
Anche nella lettera a mia moglie descrissi quel
paesaggio e quei colori e quella mia ingenua sensazione di felicità. Le scrissi
anche, naturalmente, che avrei voluto averla vicina, per condividere con lei il
mio piacere.
Poco prima del tramonto apparvero sulla riva del
fiume, sulle due sponde, le baracche di legno della periferia. Erano
ammucchiate dietro a precari piccoli moli con dinanzi attraccate barche a remi
o a vela latina; poi più avanti sorgevano dalla foresta, case di cemento
intramezzate da villette in mattoni in stile inglese. Infine, quando già il
sole era sceso sotto l’orizzonte verdescuro d’alberi e di liane apparvero i
palazzi della città e lo slargo del fiume dove avremo ancorato. Ordinai di
preparare a dar fondo e mandai a chiamare il comandante. La manovra fu rapida,
elegante ed essenziale. Fondo all’ancora di dritta, allascare sei lunghezze di
catena, lo scossone a testimoniare che l’ancora, come si dice in gergo, aveva
fatto testa, teneva insomma, avanti adagio con il timone cinque gradi a
sinistra fino a traguardare l’allineamento della torre radiofonica con il
faretto del molo, fondo all’ancora di sinistra, allascare cinque lunghezze e
mezzo e dare anche un colpo di macchina indietro. Nave ferma con le ancore
afforcate. Eravamo sicuri come se fossimo attraccati alla banchina.
Arrivarono gli ufficiali dell’Immigration, quelli
della finanza, il dottore per la
libera pratica. Arrivò l’.agente con in una cartella di cuoio gli ordini scritti dell’armatore , le
lettere da casa con le notizie ormai vecchie di un mese e le rupie da
distribuire alla gente di bordo che andava in franchigia
Era ormai
notte e le maone che avrebbero provveduto alla discarica ci avrebbero abbordato
il mattino dopo. Così per quella sera salvo un ufficiale di coperta, uno di
macchina e due marinai di guardia il resto dell’equipaggio era libero di andare
a terra. Scesi anch’io con una delle motolancie che facevano servizio con il
molo. Attraccammo vicino ad una scaletta di ferro sulla quale dovemmo arrampicarci
per salire sulla banchina altissima. Ero insieme al cuoco siriano Issa e a suo
fratello Ahmed che faceva il cameriere. C’era il secondo macchinista Giurovich
insieme a due sottufficiali di macchina suoi paesani, di Tivat in Montenegro. E
anche l’elettricista di Spalato, un chiacchierone appena uscito di galera che
di elettrotecnica ne sapeva meno di me: il comandante Malich lo aveva imbarcato
perché era un suo cugino.
-Noi andiamo a mangiare al Crown e poi passiamo
dalla discoteca che c’è la dietro, in Maharastra street.- Disse Giurovich,
facendosi portavoce del gruppetto di slavi.
-Io e mio fratello andiamo nell’Amhra, - disse Issa.
L’Amhra, che in arabo significa rosso, per Issa era
il quartiere delle puttane, anche se a Cochin non esisteva, come a Bombay, una
vera e propria zona a luci rosse.
-Io non capisco queste ragazze indiane. Ballano con
te tutta la sera, poi arriva un loro amico indiano e se ne vanno senza neanche
salutarti. Niente discoteca in India. Solo spendi rupie e non combini niente.
Discoteca in Europa, in India è meglio il casino.-
E dopo
averci elargito questo concentrato di esperienza e di saggezza mi chiese se
volevo andare con loro.
-Grazie, Issa.- Gli risposi. -Vado a mangiare
qualcosa allo Sheraton, poi forse ci vediamo all’Amhra.-
Ero sposato da poco, amavo mia moglie con
l’entusiasmo e la dedizione della giovinezza e l’ultima cosa che m’interessava
era di andare in cerca di donne. Che fossero puttane oppure turiste in cerca di
avventure, o anche ragazze indiane un po’ snob e un po’ anticonformiste che
volevano far conoscenza con un occidentale, non aveva importanza. Preferivo
passeggiare e guardare nei negozi le solite statuette d’avorio o la filigrana
d’argento, odorare i profumi d’incenso e di frutti esotici, sentire la nostalgia
di casa nella calda, dolce, malinconica notte tropicale.
E così, mentre camminavo lungo la riva del fiume
Cochin, senza nessun pensiero, solo una salgariana sensazione di “Deja vu”
quando davanti comparivano le figure di Krhisnamurti e di Visnu scolpite o
dipinte sulle facciate troppo illuminate di templi induisti, all’improvviso
l’allucinata, intensa fissità di uno sguardo mi bloccò. Seduta sulla balaustra di pietra tra la
piazza ed il fiume, illuminata da un lampione, una ragazza vestita di seta leggera,
con la bocca leggermente aperta come per un suo strano stupore, con gli occhi
sbarrati, mi guardava come se mi avesse già conosciuto.
Il viso aveva i lineamenti fini delle Bengalesi ed
anche il corpo era alto e sottile. Era bella. Per gioco finsi il suo medesimo
stupore, aprii un po’ la bocca, e presi a fissarla con gli occhi sbarrati.
-Do you belive in the
Karma?.- Credi nel Karma? – mi domandò.
-Yes, I do. May be
you are my Karma.- Si. Forse sei tu il mio Karma. Le risposi.
Non avevo
nessun’intenzione di sedurla e neanche di conoscerla meglio. Anche se era bella
e misteriosa e strana, com’era il suo paese per ogni occidentale, avevo parlato
soltanto per il gusto della battuta.
La ragazza scese dalla balaustra, si avvicinò a
guardarmi meglio, mi toccò il petto con la mano scura e delicata come per
esaminare la consistenza del mio corpo. Poi mi chiese se volevo passeggiare con
lei.
Mi domandai se fosse una prostituta che mi aveva
abbordato con una tattica insolita oppure una turista di Calcutta, in cerca
d’emozioni per lei esotiche.
Camminammo vicini, senza più sfiorarci neppure con
le mani e l’ascoltai parlare di karma e di reincarnazione, di shamsara e di
Shopenauer, di Tagore e di Marx. Mescolava i concetti filosofici, le religioni
e le culture con una grazia che incantava. Con la scioltezza di un giocoliere
della mente saltava da Jung a Patanjali, da Nietzche alla pratica del Tantra
Yoga.
La notte era tiepida, il suo profilo stagliato nel
chiarore della luna era finissimo e leggermente arcuato, il tono della sua voce
alto. Frequentava l’ultimo anno di filosofia all’università di Delhi, era
colta, mi parve anche allegra e disperata.
Ci sedemmo su una scalinata ai piedi di un Tempietto
dedicato a Ganesh, il dio con la testa di elefante. Le parlai del mio lavoro di
navigante e di paesi lontani che avevo visitato. Lei mi contò una sua storia
d’amore finita da poco. Il suo professore di epistemologia, un Inglese vedovo,
con due figlie più vecchie di lei, l’aveva lasciata per una ragazza
occidentale, un’americana che frequentava il primo anno.
-She is orrible- mi disse. –Spaventosa, ma della sua
stessa razza, -
Non le raccontai di mia moglie. In quella notte
equatoriale mi pareva così lontana, in migliaia di chilometri e in settimane
d’assenza, che non avevo più chiaro nemmeno il disegno del suo volto.
Passai la notte insieme alla ragazza indiana, (non
conoscevo neanche il suo nome), ma non a causa di un desiderio irresistibile e
nemmeno per gallismo e perché non avevo di meglio da fare.
Aveva il corpo sottile e flessuoso, che si torceva
lento in movimenti misurati al ritmo
del pranayama quando fummo soli nella stanza del grazioso hotel al bordo del
fiume.. Era esotica nel fare all’amore
ancor più che nel parlare di filosofia o di letteratura.
Fu però proprio tutto il contrario che mi affascinò,
di lei. Fu la famigliarità della sua tristezza, così uguale a quella di tutti
noi quando siamo delusi e traditi. L’ingenuità della sua forzata allegria e
poi, nella camera, l'impegno nel sedurmi con la femminilità universale che
talvolta avevo conosciuto in ragazze incontrate nei porti del mondo e che
sempre mia moglie mi dedicava. Fui sedotto da ciò che in lei era più simile a
me e più vicino al mio mondo e alla mia cultura, piuttosto che quello che aveva
di differente e d’esotico.
All’alba, quando mi dovetti alzare dal letto per
tornare alla nave, e mentre camminavo per la strada affollata di donne avvolte
in sari, di ciclorisciò e di taxi gialli e neri come quelli di Londra, più che
affaticato per la notte d’amore o esultante per una nuova conquista, ero
pervaso da una lieve malinconia, un qualcosa di assurdamente simile alla
sensazione che avevo provato prima di partire da casa, quando avevo salutato
mia moglie per imbarcarmi.
C’era Issa sul moletto, ad aspettare la lancia che
ci doveva portare a bordo. E seduto poco lontano, quasi in coma da sonno, suo
fratello Ahmed.
Issa aveva dieci anni più di Ahmed, che era soltanto
un ragazzo. Sentiva il dovere di proteggerlo e di insegnargli a vivere.
-Fratello stanotte innamorato di puttana indiana, -
mi disse. –Io picchiato lui, perchè voleva fermarsi ancora in casino. Lui
diceva di non volere più tornare su nave-
-Hai fatto bene, Issa. Non si deve dimenticare il
dovere. – Gli risposi.
-Ma per tuo fratello la puttana indiana vale quanto
una principessa yemenita. E’ una ragazza della quale ha bisogno, una donna che
crede d’amare, al di là del mestiere che fa, e della razza. - -
Quando la lancia approdò al molo non fu necessario
scendere la scala di ferro, perché il fiume si era alzato di almeno due metri,
a causa della marea che aveva risalito l’estuario. Traversammo lentamente, con
il motore al minimo. L’acqua era marrone e quasi ferma per l’equilibrio tra la
corrente del fiume e quella della marea. Come certe giornate quando a casa
uscivo con la barca a pescare branzini alla foce del Tagliamento. Solo che
invece dei gabbiani e dei piccoli aironi bianchi, appollaiati sulle boe
d’ormeggio stavano i marabù.
FINE