Marabù
Fabrizio Pitton

 

                    Non eravamo sul delta del Gange, in quell’immenso labirinto di corsi d’acqua divisi da selvagge isole coperte dall’intricata vegetazione tropicale. Non stavo navigando nelle Sounderbans popolate dalle tigri del bengala e dai Toughs. A bordo di una carretta del mare con bandiera di Panama, risalivo l’estuario del fiume Cochin, per andare a scaricare cassoni di macchinari provenienti dal Nord Europa e per imbarcare casse di the, sacchi di pepe e manufatti in cotone.

Quel pomeriggio il San Giorgio navigava faticosamente contro la corrente del fiume, contro il vento del monsone che stava per finire, sotto piovaschi brevi e furibondi. Ero di guardia in plancia, assieme al pilota grasso e quasi nero di pelle, che impartiva ordini al timoniere in un perfetto inglese oxfordiano. La prora della nave fendeva l’acqua scura del fiume. Ammassi galleggianti di piante acquatiche e di ramaglie che si erano impigliate nelle lunghe radici fluttuanti parevano venirci incontro in una sequela interminabile. Da questi isolotti che talvolta erano rovesciati e sconquassati dalla nave, ma più spesso soltanto spostati e parevano poi correre lungo le fiancate, si alzavano torpidi voli dei pesanti uccelli della foresta. Marabù e nibbi, ibis di vari tipi e una miriade di piccole specie a me sconosciute.

“La giungla è identica a quella dei libri di Salgari, ” avevo scritto, prima di montare di guardia, in una lettera a mio padre. “Un’India che ho lungamente fantasticato da bambino su quelle pagine che evocavano colori e profumi d’oriente, insieme ai sogni di avventure romantiche; quei libri che mi hai regalato e mi hanno fatto scegliere, senza incertezze o dubbi, la carriera del mare. Ora mi pare che i miei sogni di adolescente si stanno realizzando .”

Anche nella lettera a mia moglie descrissi quel paesaggio e quei colori e quella mia ingenua sensazione di felicità. Le scrissi anche, naturalmente, che avrei voluto averla vicina, per condividere con lei il mio piacere.

Poco prima del tramonto apparvero sulla riva del fiume, sulle due sponde, le baracche di legno della periferia. Erano ammucchiate dietro a precari piccoli moli con dinanzi attraccate barche a remi o a vela latina; poi più avanti sorgevano dalla foresta, case di cemento intramezzate da villette in mattoni in stile inglese. Infine, quando già il sole era sceso sotto l’orizzonte verdescuro d’alberi e di liane apparvero i palazzi della città e lo slargo del fiume dove avremo ancorato. Ordinai di preparare a dar fondo e mandai a chiamare il comandante. La manovra fu rapida, elegante ed essenziale. Fondo all’ancora di dritta, allascare sei lunghezze di catena, lo scossone a testimoniare che l’ancora, come si dice in gergo, aveva fatto testa, teneva insomma, avanti adagio con il timone cinque gradi a sinistra fino a traguardare l’allineamento della torre radiofonica con il faretto del molo, fondo all’ancora di sinistra, allascare cinque lunghezze e mezzo e dare anche un colpo di macchina indietro. Nave ferma con le ancore afforcate. Eravamo sicuri come se fossimo attraccati alla banchina.

Arrivarono gli ufficiali dell’Immigration, quelli della finanza, il dottore   per la libera pratica. Arrivò l’.agente con in una cartella di cuoio  gli ordini scritti dell’armatore , le lettere da casa con le notizie ormai vecchie di un mese e le rupie da distribuire alla gente di bordo che andava in franchigia

 Era ormai notte e le maone che avrebbero provveduto alla discarica ci avrebbero abbordato il mattino dopo. Così per quella sera salvo un ufficiale di coperta, uno di macchina e due marinai di guardia il resto dell’equipaggio era libero di andare a terra. Scesi anch’io con una delle motolancie che facevano servizio con il molo. Attraccammo vicino ad una scaletta di ferro sulla quale dovemmo arrampicarci per salire sulla banchina altissima. Ero insieme al cuoco siriano Issa e a suo fratello Ahmed che faceva il cameriere. C’era il secondo macchinista Giurovich insieme a due sottufficiali di macchina suoi paesani, di Tivat in Montenegro. E anche l’elettricista di Spalato, un chiacchierone appena uscito di galera che di elettrotecnica ne sapeva meno di me: il comandante Malich lo aveva imbarcato perché era un suo cugino.

-Noi andiamo a mangiare al Crown e poi passiamo dalla discoteca che c’è la dietro, in Maharastra street.- Disse Giurovich, facendosi portavoce del gruppetto di slavi.

-Io e mio fratello andiamo nell’Amhra, - disse Issa.

L’Amhra, che in arabo significa rosso, per Issa era il quartiere delle puttane, anche se a Cochin non esisteva, come a Bombay, una vera e propria zona a luci rosse.

-Io non capisco queste ragazze indiane. Ballano con te tutta la sera, poi arriva un loro amico indiano e se ne vanno senza neanche salutarti. Niente discoteca in India. Solo spendi rupie e non combini niente. Discoteca in Europa, in India è meglio il casino.-

 E dopo averci elargito questo concentrato di esperienza e di saggezza mi chiese se volevo andare con loro.

-Grazie, Issa.- Gli risposi. -Vado a mangiare qualcosa allo Sheraton, poi forse ci vediamo all’Amhra.-

Ero sposato da poco, amavo mia moglie con l’entusiasmo e la dedizione della giovinezza e l’ultima cosa che m’interessava era di andare in cerca di donne. Che fossero puttane oppure turiste in cerca di avventure, o anche ragazze indiane un po’ snob e un po’ anticonformiste che volevano far conoscenza con un occidentale, non aveva importanza. Preferivo passeggiare e guardare nei negozi le solite statuette d’avorio o la filigrana d’argento, odorare i profumi d’incenso e di frutti esotici, sentire la nostalgia di casa nella calda, dolce, malinconica notte tropicale.

E così, mentre camminavo lungo la riva del fiume Cochin, senza nessun pensiero, solo una salgariana sensazione di “Deja vu” quando davanti comparivano le figure di Krhisnamurti e di Visnu scolpite o dipinte sulle facciate troppo illuminate di templi induisti, all’improvviso l’allucinata, intensa fissità di uno sguardo mi bloccò.  Seduta sulla balaustra di pietra tra la piazza ed il fiume, illuminata da un lampione, una ragazza vestita di seta leggera, con la bocca leggermente aperta come per un suo strano stupore, con gli occhi sbarrati, mi guardava come se mi avesse già conosciuto.

Il viso aveva i lineamenti fini delle Bengalesi ed anche il corpo era alto e sottile. Era bella. Per gioco finsi il suo medesimo stupore, aprii un po’ la bocca, e presi a fissarla con gli occhi sbarrati.

-Do you belive in the Karma?.-  Credi nel Karma? – mi domandò.

-Yes, I do. May be you are my Karma.- Si. Forse sei tu il mio Karma. Le risposi.

 Non avevo nessun’intenzione di sedurla e neanche di conoscerla meglio. Anche se era bella e misteriosa e strana, com’era il suo paese per ogni occidentale, avevo parlato soltanto per il gusto della battuta.

La ragazza scese dalla balaustra, si avvicinò a guardarmi meglio, mi toccò il petto con la mano scura e delicata come per esaminare la consistenza del mio corpo. Poi mi chiese se volevo passeggiare con lei.

Mi domandai se fosse una prostituta che mi aveva abbordato con una tattica insolita oppure una turista di Calcutta, in cerca d’emozioni per lei esotiche.

Camminammo vicini, senza più sfiorarci neppure con le mani e l’ascoltai parlare di karma e di reincarnazione, di shamsara e di Shopenauer, di Tagore e di Marx. Mescolava i concetti filosofici, le religioni e le culture con una grazia che incantava. Con la scioltezza di un giocoliere della mente saltava da Jung a Patanjali, da Nietzche alla pratica del Tantra Yoga.

La notte era tiepida, il suo profilo stagliato nel chiarore della luna era finissimo e leggermente arcuato, il tono della sua voce alto. Frequentava l’ultimo anno di filosofia all’università di Delhi, era colta, mi parve anche allegra e disperata.

Ci sedemmo su una scalinata ai piedi di un Tempietto dedicato a Ganesh, il dio con la testa di elefante. Le parlai del mio lavoro di navigante e di paesi lontani che avevo visitato. Lei mi contò una sua storia d’amore finita da poco. Il suo professore di epistemologia, un Inglese vedovo, con due figlie più vecchie di lei, l’aveva lasciata per una ragazza occidentale, un’americana che frequentava il primo anno.

-She is orrible- mi disse. –Spaventosa, ma della sua stessa razza, -

Non le raccontai di mia moglie. In quella notte equatoriale mi pareva così lontana, in migliaia di chilometri e in settimane d’assenza, che non avevo più chiaro nemmeno il disegno del suo volto.

Passai la notte insieme alla ragazza indiana, (non conoscevo neanche il suo nome), ma non a causa di un desiderio irresistibile e nemmeno per gallismo e perché non avevo di meglio da fare.

Aveva il corpo sottile e flessuoso, che si torceva lento in   movimenti misurati al ritmo del pranayama quando fummo soli nella stanza del grazioso hotel al bordo del fiume..  Era esotica nel fare all’amore ancor più che nel parlare di filosofia o di letteratura.

Fu però proprio tutto il contrario che mi affascinò, di lei. Fu la famigliarità della sua tristezza, così uguale a quella di tutti noi quando siamo delusi e traditi. L’ingenuità della sua forzata allegria e poi, nella camera, l'impegno nel sedurmi con la femminilità universale che talvolta avevo conosciuto in ragazze incontrate nei porti del mondo e che sempre mia moglie mi dedicava. Fui sedotto da ciò che in lei era più simile a me e più vicino al mio mondo e alla mia cultura, piuttosto che quello che aveva di differente e d’esotico.

All’alba, quando mi dovetti alzare dal letto per tornare alla nave, e mentre camminavo per la strada affollata di donne avvolte in sari, di ciclorisciò e di taxi gialli e neri come quelli di Londra, più che affaticato per la notte d’amore o esultante per una nuova conquista, ero pervaso da una lieve malinconia, un qualcosa di assurdamente simile alla sensazione che avevo provato prima di partire da casa, quando avevo salutato mia moglie per imbarcarmi.

C’era Issa sul moletto, ad aspettare la lancia che ci doveva portare a bordo. E seduto poco lontano, quasi in coma da sonno, suo fratello Ahmed.

Issa aveva dieci anni più di Ahmed, che era soltanto un ragazzo. Sentiva il dovere di proteggerlo e di insegnargli a vivere.

-Fratello stanotte innamorato di puttana indiana, - mi disse. –Io picchiato lui, perchè voleva fermarsi ancora in casino. Lui diceva di non volere più tornare su nave-

-Hai fatto bene, Issa. Non si deve dimenticare il dovere. – Gli risposi.

-Ma per tuo fratello la puttana indiana vale quanto una principessa yemenita. E’ una ragazza della quale ha bisogno, una donna che crede d’amare, al di là del mestiere che fa, e della razza. - -

Quando la lancia approdò al molo non fu necessario scendere la scala di ferro, perché il fiume si era alzato di almeno due metri, a causa della marea che aveva risalito l’estuario. Traversammo lentamente, con il motore al minimo. L’acqua era marrone e quasi ferma per l’equilibrio tra la corrente del fiume e quella della marea. Come certe giornate quando a casa uscivo con la barca a pescare branzini alla foce del Tagliamento. Solo che invece dei gabbiani e dei piccoli aironi bianchi, appollaiati sulle boe d’ormeggio stavano i marabù.

 

FINE