La salvezza in una notte
Alice Maschera

-Devo assolutamente scappare! Non posso più restare qui. Ora nessuno più mi tratterrà. Ormai ho preso le mie decisioni e quelle restano. Credo che, per come si stanno svolgendo gli avvenimenti non ci sia null’altro da fare, se non evadere.- Sentenziò Ascanio.

-  Ma sei matto! Ascoltami per favore! Sono ormai dieci anni che sono tuo compagno di cella e ti posso assicurare che se evadi è peggio.- ribadì Ottone

-  Ho già trascorso troppo tempo in questa topaia. Voglio vedere qualcosa d’altro oltre queste quattro sudice mura. E poi tu come mio compagno di cella non mi puoi dire nulla. Primo perché sei qui da dieci anni mentre io da quindici, secondo perché tu hai commesso realmente un delitto, mentre io sono stato accusato ingiustamente. Ormai ho deciso: domani sarò fuori di qui.

-  Ma come farai? Non puoi riuscirci in una notte!

-  Zitto! Sta arrivando la guardia.

La discussione fu così animata che non si accorsero neanche della fame che cominciava a farsi sentire.

-  Ecco il vostro pasto - disse la guardia.

-  Possibile che non ci sia nient’altro in quella maledetta cucina? Tutti i giorni pane raffermo.- Osservò Ascanio.

-  Se non ti va bene stai digiuno.

E così la guardia se ne andò

Il pomeriggio passò in fretta nella cella  a2n387 (ala 2 n^387) e la discussione ne fu la protagonista. Ascanio era un uomo burbero e diretto che dava sempre risposte esaurienti anche se in poche parole. Aveva un carattere abbastanza insopportabile, solo Ottone lo tollerava per debolezza. Non andavano mai particolarmente d’accordo, ma, soprattutto quel giorno, sembrava si odiassero; in realtà dopotutto si volevano bene. Di solito Ascanio passava il pomeriggio ad ascoltare le chiacchiere delle guardie che stavano al di fuori da quelle inferriate che lo dividevano dalla libertà; queste però non dicevano mai nulla di interessante, secondo il parere di Ascanio blateravano solo delle grandi sciocchezze.

-  Dove andrai?- Gli chiedeva costantemente Ottone, seriamente preoccupato per il compagno.

-  Non lo so. E’ un particolare da stabilire.

-  Non è un particolare, ne va della tua vita.

-  Non ne ho idea, ma stai sicuro che da qualche parte andrò.

La sera di quel fatidico giorno, precisamente il 3 luglio 2000, come da tre sere in avanti, arrivò la nuova guardia, un ragazzetto piuttosto mingherlino che, contrariamente a quanto si sarebbe immaginato di lui, era forte e adatto al suo lavoro di guardia carceraria.

Ma questo Ascanio non lo sapeva. Infatti, come chiunque altro avrebbe fatto, l’aveva giudicato valutandone solo l’aspetto fisico.

Così, quando il malcapitato arrivò armato di vassoio contenente solo il ripudiato pane raffermo e infilò il braccio nella finestrella adibita alla consegna dei pasti, Ascanio con un salto felino, gli afferrò il polso e lo strinse con la sua mano forzuta tanto che il poveraccio perse i sensi senza avere nemmeno il tempo di urlare. Con movimenti silenziosi e vellutati Ascanio infilò la sua mano tozza nella finestrella e la allungò fino alla serratura da cui estrasse la chiave. Per pura fortuna, il corpo una volta inerme non era caduto a terra, ma era stato sorretto dal muro al quale si era appoggiata la guardia prima di svenire. “Benedetto muro! Hai evitato un bel tonfo che avrebbe potuto allarmare i colleghi del poveretto; come inizio non sarebbe stato dei migliori. Chissà se è la prima volta che questo muro aiuta un evasore, credo proprio di no, se ne sentono tante di storie” fu il primo pensiero di Ascanio dopo l’accaduto. Infilò la chiave col cartellino “a2n387”  nella serratura della porta della sua cella che, nell’aprirsi provocò un sordo cigolio. Una volta aperta la porta, Ascanio prese di peso il corpo tramortito e, caricatoselo in spalla, lo portò all’interno della propria cella, dove Ottone sdraiato sul letto non aveva ancora detto una parola. Era rimasto stordito dalla velocità dei fatti e da come si fossero succeduti senza che lui se ne accorgesse. Dopo esser riuscito a portare il corpo all’interno della cella, lo trascinò fino al piccolo bagno adiacente, accessibile solo dalla cella. Quindi si chiuse dentro col corpo della guardia al quale tolse i vestiti che poi indossò. Erano troppo piccoli per lui, era evidente che non fossero i suoi, ma non ci fece caso. Fu un’imprudenza, solo dopo se ne sarebbe accorto. Prese tutti i propri oggetti e quelli della guardia, tranne le chiavi e li nascose sotto la sua brandina con l’intento far sparire ogni tipo di traccia.

Ormai erano circa le nove di sera. Ottone, mezzo stordito dal succedersi di avvenimenti, cosa alquanto strana per lui, si era addormentato di sasso.

Ascanio intanto aveva passato la più movimentata notte della sua vita.

Uscito dalla cella madido di sudore si diresse, senza seguire alcun  criterio, verso destra. Del resto le possibili direzioni erano solo due.

L’ultima volta che era passato di là era stato circa quindici anni prima e i suoi ricordi erano molto vaghi e confusi; quindici anni vissuti in una cella sono troppi per poter mantenere vivo il senso dell’orientamento. Era sempre rimasto dentro quelle quattro mura perché non gli era mai piaciuto lavorare, né in carcere né altrove, e, quando gli avevano offerto un lavoro, egli aveva risposto: “ Preferisco pensare a ciò che non ho fatto. Mi affatico già così, ci mancherebbe solo che rincarassi la dose.”

 Fece un grosso errore perché non a tutti veniva offerta questa possibilità, ma lui aveva solo seguito la sua indole calma e flemmatica.

Percorse un lungo corridoio dove poté vedere altre celle come la sua; solo i numeri erano diversi. I detenuti lo guardavano con curiosità, ma non osavano fare commenti, dopotutto era sempre una guardia seppure nuova e con la divisa piccola.

Il corridoio, giunto al termine, si biforcava. Non c’erano indicazioni, Ascanio non capiva perché, lo avrebbe capito dopo. Ancora una volta scelse senza criterio, prese la strada di sinistra, un altro lungo corridoio. Percorse anche questo e si ritrovò di fronte quattro porte: sulla prima a destra c’era il cartellino dei bagni femminili. Aveva sentito parlare di quest’ala della struttura, la più vecchia e dove non c’era un bagno per cella, ma due ogni  dieci celle. Guardò la porta a fianco alla prima osservata: c’era lo stesso cartellino, ma rappresentante un uomo: era il bagno dei maschi. Proseguì, non gli interessava. Di quell’ala parlavano spesso le guardie: era famosa perché vi rinchiudevano i peggiori delinquenti di tutt’e due i sessi.

 Oltre c’era un’altra porta, ma senza alcun cartellino, notò però che era diversa dalle altre due. Stando alla descrizione che gli aveva fatto Ottone della porta della cappella dell’ala due, quella doveva essere la  chiesetta dell’ala quattro.

Ascanio non aveva un’idea precisa di cosa fosse una cappella, dato che né vi andava da libero, né da recluso. La 4^ porta non aveva né cartellini, né ornamenti particolari per poter dire cosa contenesse. Proseguì. Davanti a lui si apriva un altro corridoio. Quando  l’ebbe passato, si trovò con alle spalle il percorso appena seguito, davanti una porta di metallo, a destra un altro corridoio che si univa a quello a cui era giunto, e a sinistra un’altra porta dalla quale usciva un odore che non riuscì ad identificare. A quel punto non gli rimanevano molte alternative. Pensò di ripercorrere la strada a ritroso per arrivare alla sua cella e da lì proseguire verso sinistra. E così fece. Si ritrovò davanti alle quattro porte, ripercorse il corridoio circondato da celle, dove i detenuti lo guardavano con curiosità: il turno di controllo sarebbe stato mezz’ora dopo.

Ripercorse anche il corridoio successivo. A quel punto si trovava esattamente dove era passato un quarto d’ora prima. Come inizio non era dei migliori; gli venne il dubbio “Che fosse ora del turno di controllo delle guardie;” pensò allora di doversi nascondere finché non le avesse sentite parlare. Decise di rifugiarsi nel bagno maschile appena superato.

 Vi entrò e si trovò davanti a due porte arancioni piuttosto stinte e trascurate. Entrò in una delle due. L’ambiente era piccolo e maleodorante. Sulla destra vi era un lavandino, a sinistra un box doccia e a destra una latrina. L’odore era insopportabile; pensò che nel bagno attiguo la situazione potesse essere migliore. La speranza, si rivelò vana. Capì che, dovendo passarci un tempo indeterminato, sarebbe stato meglio trovare un posto migliore. Considerò allora le sue possibilità: entrare nel bagno delle femmine, ma fu subito esclusa, immaginando che la situazione non  potesse che essere analoga; entrare nella porta senza cartellini né ornamenti vari, ma era meglio non affrontare l’ignoto; tornare alla sua cella, cosa alquanto rischiosa oppure andare in cappella, ipotesi che considerò poi come migliore e che eseguì.

 Mentre cercava di spingere il pesante portone sentì delle voci avvicinarsi sempre di più. Spinse con tutte le sue forze, ma la porta non si aprì. Era chiusa, possibilità che lui non aveva nemmeno preso in considerazione. Ora le sue vie di fuga erano rimaste due: affrontare l’ignoto e infilarsi nella porta senza segni particolari o tornare nella sua cella con il rischio ancora più elevato di fare incontri non troppo piacevoli.

Scelse la prima ipotesi.  Una volta entrato, si trovò in un piccolo disimpegno fatto ad angolo, le sue pareti erano ricoperte da uno spesso strato di pesante mogano a quadri. Cominciò ad avere un sospetto: non riusciva a spiegarsi come mai tutto il carcere fosse brutto e mal tenuto, mentre quella stanza così insignificante fosse elegante e pomposa.

Vi era un piccolo mobiletto di mogano, come le pareti. Questo era formato da due ante decorate con bassorilievi rappresentanti degli alberi e della frutta. Tra questi alberi c’erano due uomini nudi. Guardando meglio notò che erano in realtà un uomo e una donna che stavano cogliendo delle mele da un altro albero più grande, dal quale scendeva un serpente. Su una targhetta dorata vi era scritto:

“ADAMO E EVA, PECCATORI ORIGINALI, PUNITI DA DIO.

UOMINI, PECCATORI, PUNITI DALLA LEGGE

Queste parole lo colpirono. Non sapeva dar loro un significato, ma un sospetto si fece avanti nella sua mente e ben presto capì di essere nell’anticamera del tribunale. La cosa lo spaventava assai perché lì le probabilità che lo scoprissero erano ancora più alte.

Gli sembrava una cosa assurda che non si ricordasse più quel fatidico luogo dove quindici anni  prima era stato processato. Era cosciente di avere una memoria molto corta, ma non riusciva a comprendere come facesse a non ricordarsi nemmeno il giorno peggiore della sua vita, il giorno in cui era stato condannato per un delitto mai compiuto.

Dall’uomo solare e benevolo che era, si era trasformato in una persona burbera e sgarbata, che rimpiangeva la libertà. Non che fuori dalla prigione facesse cose eccezionali, data la sua indole oziosa, ma almeno era libero.

All’inizio della sua reclusione si rincuorava pensando, malgrado la sua opinione negativa della legge, che un giorno o l’altro qualcuno si sarebbe accorto dell’errore. Ma dopo che non ci furono novità per due anni perse le speranze. Fece una breve riflessione sulla sua amnesia. Poi capì: lui non era stato processato lì, ma in un altro carcere, da cui successivamente l’avevano trasferito.

A quel punto si ricordò di tante cose alle quali non pensava più da anni.

 Gli venne in mente il giorno in cui sua madre morì, erano già passati diciotto anni. Fu terribile. Pensò anche suo padre, era un uomo tanto buono; un ammiraglio della flotta italiana. Chissà dov’era in quel momento. La sua nave un giorno aveva perso i contatti con la terra ferma e da allora non se ne era saputo più nulla.

Si ricordò anche di quella volta che, da piccolo, aveva picchiato il suo compagno. Era stata la sua prima soddisfazione.

 Gli tornarono in mente fatti avvenuti anni e anni prima, pensava a tutti i suoi ex amici e compagni.

Ripensò alla sua unica storia di amore, al suo sogno di una famiglia abbandonato dopo la fine della sua storia.

 Ritrovò la passione per la musica che era andata persa nei tempi bui.

Si ricordò del primo giorno di scuola. “Che bei tempi! Allora ero felice e spensierato e mai avrei pensato di fare questa fine!” diceva tra sé . Si stupiva di sé stesso. In quel momento, per la prima volta in tutti gli anni della sua reclusione, si sentì soddisfatto della sua vita.

 Dopo tutti questi pensieri sentì un vuoto: tra tutte quelle persone, ne mancava una, ma non riusciva a capire chi.

Fu riportato al mondo reale da dei passi che si avvicinavano. Sentì la porta aprirsi. Preso dal panico entrò nel tribunale e si nascose nel bagno attiguo, che era in condizioni decisamente migliori rispetto a quello visitato precedentemente.

Dal buco della serratura poteva scorgere due uomini sulla mezza età che entravano nella sala.

 Era un tribunale semplice, ma molto fine e raffinato nel gusto. Era anch’esso rivestito in mogano, ma questo non appesantiva l’ambiente. Si trattava di una sala circolare occupata per ¾ dalle tribune e per il resto da una grande scrivania affiancata da cinque sedie imponenti; sul muro troneggiava la seguente scritta in oro:

LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI

I due uomini entrarono e si sistemarono sulle tribune

-  Signor giudice, quell’uomo è stato trovato morto.- disse uno dei due

-  Lo so, ma appunto per questo non ha senso. Come avrebbe fatto a rapire la guardia e a chiuderla nel bagno?- rispose l’altro cominciando a cambiare tono di voce

-  La prego, sia ragionevole. Prima ha compiuto l’atto, poi si è ucciso

A quel punto Ascanio sentì il vuoto, percepito prima, riempirsi. Non aveva pensato a Ottone che, seppure indirettamente, aveva ucciso. Ascanio non era tipo da avere rimorsi di coscienza, ma aveva fatto del male ad un amico, una persona che gli voleva bene. “ E’ morto perché lacerato dal dolore. Se l’avessi ascoltato, io non sarei in mezzo ai guai e lui sarebbe vivo. Ci teneva di più Ottone alla mia vita che io.” Pensò fra se’.

 La conversazione intanto proseguiva.

- Sì, può essere

In quel momento entrò una terza persona. Era una guardia.

-  Il medico a prima vista ha detto che si tratta di un arresto cardiaco

-  Allora neanche la mia ipotesi ha più senso - commentò il giudice - come sta il vostro collega? Quello trovato nel gabinetto

-  Bene

-  Potrei parlargli?

-  No, è in deliquio.

-  Dov’è al momento?

-  In infermeria.

-  E il cadavere?

-  Nella sala lavori. Non avevamo un altro posto in cui metterlo. L’ambulanza arriverà tra circa mezz’ora.

-  Bene. Potete andare

La guardia allora se ne andò. I due ripresero a parlare.

-  Il morto era solo in cella? – chiese ancora il giudice

-  No, ma il suo compagno non si trova. Non si capisce come sia potuto succedere

-  Sì, la cosa è alquanto strana. Dev’essere evaso

-  Ma questo non è possibile. Con i sistemi di sicurezza…

Ascanio non diede peso all’affermazione riguardante i sistemi di sicurezza. “Ci saranno le

Solite due guardie, ma tanto non si accorgeranno di nulla, dato che sono vestito come loro.”

-  Ciò significa che è ancora all’interno di questa struttura, ma come mai nessuno se ne è accorto?

Il giudice sbadigliò.

- Che ore sono?

-  Le dieci

-  E’ tardi. Vado.

Entrambi uscirono. Quando Ascanio non ne sentì più i passi si allontanò dal suo nascondiglio. Doveva raggiungere assolutamente la sala lavori. Voleva salutare per l’ultima volta il suo amico defunto. Era deciso a provare tutte le porte pur di trovare quella che cercava.

 Cominciò da quella da cui usciva un odore che non sapeva identificare.

Entrato, capì subito  di aver sbagliato: era capitato nella lavanderia del carcere e l’odore proveniva dai detersivi.

Gli tornò in mente Ottone.

Prese in considerazione la possibilità di passare davanti alla sua cella, ma pensò che fosse troppo rischioso con tutta la gente che c’era.

Si diresse verso le quattro porte, ma non riuscì a passare. Era il momento in cui i maschi di quell’ala andavano in bagno.

 Tornò dunque indietro passando dall’altra parte.

 L’unica cosa da fare era infilarsi nella porta di ferro. Il suo abbigliamento gli dava sicurezza.

Aveva raggiunto l’ingresso, a quell’ora era deserto. Qui si trovava un orologio appeso al muro che segnava le 10:25. Ebbe paura che l’ambulanza fosse arrivata un po’ prima o che arrivasse in quel momento. C’era una porta in legno davanti a lui. Senza neanche pensarci vi entrò.

-  Dov’è l’educazione? Adesso non si bussa neanche più?- disse un poliziotto all’interno

-  Mi scusi, sono nuovo.- farfugliò Ascanio colto alla sprovvista

-  Sei un po’ in ritardo!

-  Mi ero perso.

-  Come ti chiami?

-  Stefano Rubi- sparò Ascanio. Disse il primo nome che gli venne in mente.

-  Allora avrà sbagliato il mio collega. Mi ha detto che ti chiami Austin Zulian

-  Sì, in effetti è vero. Sono i miei amici che mi chiamano così perché dicono che assomiglio tanto al vero Stefano

-  Porta rispetto ragazzo. Sono andati bene i tre giorni di prova?

-  Sì - Ascanio capì che lo doveva aver preso per la nuova guardia

-  Come mai ti è così piccola quella divisa?

-  Era l’unica che avevano al momento. Mi hanno detto che me l’avrebbero cambiata appena possibile

In quel momento qualcuno bussò

-  Avanti! - disse il poliziotto.

Entrò una guardia

-  L’ambulanza ha trovato coda, arriverà fra mezz’ora.

-  Quale ambulanza? Io non so niente, cosa è successo? – poi si rivolse ad Ascanio - Vai pure, ti chiamerò più tardi.

Ascanio uscì sollevata. Aveva avuto fortuna. Molta fortuna.

Continuò il suo percorso superando un’altra porta di ferro come la precedente.

Entrò nella prima stanza che trovò: era la cucina. Aveva fame e, aperti un po’ di mobili,  trovò un vassoio con un’etichetta: Pasto Zulian Austin.

Prese una forchetta e senza tanti complimenti iniziò il suo pasto. “Mi sembrava strano che ci fosse solo pane raffermo e roba andata a male”.

In quel momento entrò qualcuno.

-  Strano! - disse questo vedendo le luci accese - Di solito sono sempre il primo a finire il turno della sera.

Ascanio capì che quando si finiva il turno si andava in cucina per mangiare.

-  Buonasera.- salutò cordialmente Ascanio 

-  Dammi del tu, siamo colleghi. Sei nuovo?

- 

-  Hai sentito cosa è successo al povero Austin?

-  Come? - chiese Ascanio cercando di sembrare all’oscuro di tutto

-  Scusa, mi ero dimenticato che sei appena arrivato. Parliamo d’altro

Ascanio intanto aveva finito il suo pasto e si era alzato lasciando il vassoio sul tavolo.

L’altro lesse la targhetta.

-  Ma questo è il vassoio di Austin!

-  Come?

-  Non stai mangiando nel tuo vassoio

-  Non mi avevano detto che fossero personali. Come fai a sapere che non è il mio?

-  C’è scritto.

-  Non avevo visto.

-  Non importa, tanto di sicuro stasera non mangerà

Ascanio uscì dalla cucina e riprese la strada che stava seguendo prima. Cercò di entrare nella porta adiacente, ma era chiusa. “Almeno sono sicuro che non è questa” pensò.

Proseguì. Entrò nella porta vicina. Era nell’infermeria.

Un’infermiera gli chiese:

-  Ha l’autorizzazione?

-  No

-  Allora se ne vada.

-  OK

-  Subito.

-  Posso almeno vedere il povero Austin? Era il mio migliore amico - Ascanio voleva capire quante persone avesse ucciso.

-  No, non può perché non ha il permesso.

-  Quando arriverà l’ambulanza?

-  A momenti. A proposito entri per favore nella stanza qui accanto, dove c’è il cadavere e dica alla mia collega che l’ambulanza sta arrivando.

Ascanio era riuscito nel suo intento: avrebbe finalmente rivisto il cadavere di Ottone, e con l’anima in pace, sarebbe potuto finalmente evadere.

Bussò alla porta indicata. Un’altra infermiera chiese:

-  Chi è?

-  Sono una guardia, vengo dall’infermeria per parlarle.

-  Venga

Ascanio entrò. Gli veniva da piangere, era molto emozionato.

-  Dunque…- cominciò a dire, ma in quel momento vide il cadavere e si mise a piangere per la commozione.

L’infermiera lo notò:

-  Se fossi stata nella mia collega  avrei scelto un altro postino. E’ troppo sensibile lei.

-  Mi dispiace che in un carcere avvengano certe cose. A momenti arriverà l’ambulanza, ecco cosa dovevo riferirle. Arrivederci.

E uscì. Tornò all’ingresso e aprì la porta.

In quel momento scattò un allarme e un uomo,  che poi Ascanio scoprì essere l’avvocato Pedasi, gli fu subito addosso. A quel punto Ascanio capì cosa intendessero con “sistemi di sicurezza" i due uomini visti nel tribunale

-  Ti ho beccato. Come mai assomigli tanto al detenuto della cella “a2n387”che non si trova più e che stiamo tutti cercando? Adesso vieni con me nel mio ufficio, dove passerai la notte. Non ti porto in cella perché voglio che tu mi racconti tutto con cura, poiché conosco  una versione molto confusa di ciò che è successo questa notte. Domani sarai processato per direttissima.

-  Altri anni di carcere! Io non ho fatto nulla! Non può non credermi. Le giuro che ho trascorso quindici eterni anni  qui per una accusa falsa e infondata. Ho quarantacinque anni e ho buttato via un terzo della mia vita! – Ascanio si sentì perduto definitivamente.

-  Andiamo!

La notte passò lenta e oziosa nello studio dell’avvocato  Pedasi. Dopo che  Ascanio ebbe raccontato tre volte le sue disavventure l’avvocato si offrì per la sua difesa. Ascanio chiese  una lunga e minuziosa descrizione di cosa sia esattamente un avvocato difensore, ma accettò la proposta di buon grado.             

-  Come mai c’è anche il tribunale in questo carcere, non dovrebbe essere in questura?- si informò Ascanio. Anche nel carcere in cui era stato processato lui c’era un tribunale.

- Queste carceri fanno parte di una serie di esperimenti su come costruire penitenziari in modo da evitare troppi spostamenti dei detenuti, ma ce ne sono solo due in tutto il Brasile.

“Dev’essere stato l’altro dei due  carceri” pensò e si addormentò vinto dalla stanchezza.

La mattina dopo Ascanio si svegliò dal suo sonno breve ed agitato e fu immediatamente condotto in tribunale in compagnia dell’avvocato. Entrando trovò quattro delle cinque sedie occupate dalla guardia incontrata in cucina, dalle due infermiere e dalla giovane guardia vittima della sua fuga.

-  Silenzio, in piedi! – urlò il Presidente battendo il martello – Entra l’imputato.

Ascanio entrò e venne fatto accomodare sulla quinta sedia.

-  Seduti, la parola all’imputato!

-  Mi chiamo Ascanio Fortis, di anni quarantacinque, nato il 23 agosto 1955 a Pisa. Detenuto ingiustamente in questo penitenziario da quindici anni, con l’accusa infondata di aver ucciso il banchiere Roberto Cirri, marito di mia sorella. Tutti sapevano che io non potevo essere il colpevole, ma, per coprire le malefatte di altri, avete fatto ricadere su di me la colpa; mi avete accusato di aver ucciso mio cognato perché si era rifiutato di concedermi un altro prestito, non essendo io riuscito ad onorare il primo. Sono innocente, la mia fuga di ieri era legittima e comprensibile. Un uomo non può subire per così tanti anni, arriva il momento della ribellione. Purtroppo mi avete catturato, in tutti questi anni di prigionia ho perso la mia dignità e le mie capacità.

-  Basta! – intimò l’Accusa – queste sono tutte menzogne insensate per nascondere la verità, lei è scappato, ferendo una guardia, compromettendo la salute del suo compagno di cella Ottone Bradley che ne è morto.

L’avvocato Pedasi interruppe il giudice – Mi oppongo alle sue affermazioni, perché lei non ha il diritto di dire questo se prima non ha ascoltato attentamente la storia di quest’uomo!

-  Parli Fortis -  ordinò il Presidente – ascoltiamo una buona volta la sua versione dei fatti!

-  Tutto è cominciato ieri pomeriggio quando io e Bradley abbiamo discusso sul perché io abbia tentato di evadere. I fatti si sono svolti in questo modo: la sera quando la guardia qui presente venne a portarci il pasto, io preso da una frenesia improvvisa, afferrai il suo polso e lo strinsi tanto che questi, per lo spavento, perse i sensi. Riuscii ad aprire la porta con le sue chiavi e a trascinarlo all’interno del gabinetto della cella, dove mi infilai questi suoi vestiti. Uscito dalla cella ho vagato per i corridoi e sono arrivato ai bagni dell’ala quattro. Mi sono nascosto nel tribunale perché  stavano arrivando le guardie e ho sentito tutto il discorso tra il giudice e un altro signore che non so chi fosse.

-  Io- urlò una voce dalla platea.

- Zitti. Fortis, continui.- fu l’ordine del giudice e il brusio si spense.

- Ero deciso a trovare il mio ex compagno. Ho provato una serie di porte. Dapprima sono capitato nella lavanderia. Mi sono guardato intorno e ho capito che non era la porta giusta. Sono uscito e vagando mi sono ritrovato nelle cucine e ho incontrato lui- esclamò Ascanio indicando la guardia incontrata in cucina. Poi ho provato ad aprire la porta a fianco, ma era chiusa. Sono arrivato in infermeria e ho incontrato lei – disse indicando la prima infermiera. Poi stavo aprendo la porta per uscire, ma è scattato l’allarme. Così mi avete acciuffato. Ho trascorso la notte con l’avvocato Pedasi in attesa del processo.

-  Quindi la sua unica colpa è stata quella di sequestro di persona con violenza. Indubbiamente è un’accusa grave, e meriterebbe tredici anni di reclusione – commentò Pedasi.

Si sentì bussare e la porta si aprì. Entrò un uomo che trascinava una donna che a Ascanio parve di aver già visto. Poi capì di chi si trattava: era sua sorella.

-  Lavinia, che ci fai qui?- chiese Ascanio

-  Sono venuta a costituirmi, mi ha convinta l’avvocato  Pedasi stanotte. Ha detto che tu eri lì con lui e mi ha raccontato tutta la vicenda. Per la prima volta in quindici anni mi sono resa conto della gravità di ciò che ho commesso e ho provato tanta pena per te.

-  Ma quindi lei, Pedasi sapeva dell’errore?- chiese Ascanio

-  No - rispose lui – ho solo desiderato che ci fosse almeno un suo parente al processo. Io le ho creduto. Sono riuscito a mettermi in contatto solo con sua sorella, che quando ha saputo,  ha confessato

-  Mi dispiace, signor Fortis - disse il giudice - lei è assolto!

-  E la pena per il sequestro di persona?- chiese Ascanio incredulo

-  Dovrebbe passare tredici anni qui, ma dato che ne ha già passati quindici inutilmente, lei è libero!- fu l’ultima frase del giudice.

Ascanio contento senza pronunciare parola se ne andò, pronto per iniziare una nuova vita.

Decise che sarebbe andato a vivere nella casa di sua sorella e che avrebbe continuato il lavoro di suo cognato.

Nonostante fosse di indole pigra, tutti quegli anni l’avevano portato a desiderare movimento e vita.

Decise inoltre che sarebbe andato a trovare sua sorella in carcere una volta a settimana per non far provare a  lei ciò che lei aveva fatto provare a lui.

Mantenne pure i contatti con Pedasi e con il giudice per la gratitudine che provava nei loro confronti.                                                                               

Frequentando il carcere capì quale era stato il suo errore fondamentale nella fuga: lui, come tutte le persone autorizzate ad entrare e ad uscire, era dotato di un pass. che, scioccamente, nella frenetica notte dell’evasione aveva nascosto sotto la sua brandina.

FINE