Se una cinepresa avesse il potere di filmare il passato, starebbe girando un paesaggio laziale, colline boscose, piccoli laghi, borghi, vigneti e campi e ville affondate nel verde; fino a stringere su una casa signorile solidamente ottocentesca ricoperta in parte da annose piante d’edera, con una doppia scalinata esterna e tende bianche alle porte-finestre del pianoterra schiuse su un giardino pieno d’ombra; ad avvicinarsi svelando gli alberi di magnolia, i cipressi in fila, gli oleandri, le rose rampicanti e il cedro del Libano piantato prima della Grande Guerra; a inquadrare infine ciò che resta di un padiglione ottagonale, le cui pareti di corteccia appaiono ingrigite e disseccate mentre il tetto spiovente è andato disfacendosi negli anni, svelando sempre più alla vista gli alberi e il cielo. Il pavimento è fatto con mattonelle di graniglia, ottagonali anch’esse e stranamente intatte, e fra le ragnatele pendono qua e là pezzi di cordoncino elettrico intrecciato. Dalle sedici finestrine senza più vetri entra libero il vento. E questo le ha valso quel nome suggestivo e un po’ misterioso, “la casetta del vento”. Di volta in volta capanna di pirati, sotterraneo dei thugs, kampong dayako, fortino del West, ponte di comando di tante navi, la Marianna, la Folgore, il Re del mare...
All’interno alcune teste di bambini si avvicinano per chinarsi sul disegno a matita di un ingegnoso insieme di ruote e pulegge che, mosso da una forza arcana, farà decollare un aereo di legno, accuratamente progettato e provvisto di vettovaglie, mappe, bussole e rifornimenti d’ogni specie. Ora non si tratta che di costruirlo e stabilire la data. La meta del viaggio è chiara a tutti, il suo nome viene sussurrato tra sguardi d’intesa perché non giunga all’udito dei grandi. Lo si ripete con reverenziale rispetto e con un piccolo brivido sgomento: Mompracem.
“Oh da quando ho giocato ai pirati malesi / quanto tempo è trascorso”. A quell’epoca li aveva già scritti questi versi, Cesare Pavese. Ma non potevo conoscerli, allora, non sapevo nulla della vita che trascorre e si intride di asprezza, io che appena cominciavo a vivere la mia iniziazione a un universo di eroi vittoriosi. C’era un divano bianco nella rientranza del muro fra la sala da pranzo con i suoi mobili neri dalle zampe leonine e i candelieri d’argento e il vasto salone dal soffitto di legno, i fiori di gesso sotto campane di vetro, gli scaffali traboccanti e la scala che portava al piano di sopra. C’era quel divano, sdraiato sul quale nell’ora della siesta degli adulti, un pomeriggio del ’49, cominciai a leggere un libro sulla cui copertina si ammassavano uomini in turbante e dai torsi nudi, muscolosi, sguardi fieri, sciabole sguainate e una bandiera rossa. Nella mano di uno di quegli uomini saettava un lungo pugnale dalla lama serpeggiante: come seppi ben presto, un kriss malese. Con I pirati della Malesia iniziava la mia storia d’amore con il mondo di Emilio Salgari.
Ero stato promosso da poco in prima media. La mia vita interiore da quel giorno non fu più la stessa, e la mia già profonda inclinazione alla fantasticheria si arricchì di più corposi scenari, alla cui evocazione non poco contribuivano le copertine delle edizioni Carroccio, vivacemente disegnate da Rino Albertarelli. Si potevano acquistare in un’edicola a ponte Garibaldi, ben presto diventata la mia personale fonte delle delizie. Eravamo appena usciti dalla guerra, la veste tipografica era povera, la stampa su due colonne in caratteri minutissimi al fine di evitare al massimo ogni spreco di carta, che era di infima qualità: ma io adoravo quei libri e li aspettavo con tutta la passione di un consumato bibliofilo. Sempre per ragioni di risparmio, quelle edizioni contenevano manomissioni e tagli brutali dei testi, ma io che potevo saperne? La mia prima mitologia letteraria nasceva dunque così, su testi falsificati: che tuttavia conservavano intera la loro capacità di suggestione. Quel raccolto, ristretto angolo di campagna in cui trascorrevo parte delle vacanze estive si dilatò agli occhi della mia fantasia fino a contenere tutto lo spazio del mondo. La villa dei nonni, ridente di giorno, cominciò ad apparirmi dopo il calar del sole minacciosa come una fortezza da espugnare; prima di andare a dormire mi affacciavo alla finestra sulla massa cupa della jungla, dalla quale giungevano le strida degli uccelli notturni e il mugolìo che precede il terribile aaaugh della tigre; le due spade che si incrociavano sullo scudo di legno appeso accanto ai ritratti ovali di certi antenati ottocenteschi mi chiamavano a eroiche imprese: ahimè, proprio sul punto in cui mi addormentavo.
Ma fu certo come una eroica impresa che vissi quell’estate la mia prima vera trasgressione. Dalla grande terrazza una scala a chiocciola di ghisa, stretta, arrugginita, conduceva alla terrazza superiore, più piccola e dalla pavimentazione sconnessa. Mia nonna la chiamava “la terrazza pericolosa”, e salirvi era proibito. Fu lassù, accanto ai cassoni dell’acqua e tra le mattonelle insicure, con il cuore in gola per la paura d’essere scoperto, che mi arrampicai un pomeriggio con una spada di canna e I misteri della jungla nera che mio padre aveva portato da Roma. Ansimante, mi affacciai alla ringhiera, e vidi per la prima volta dall’alto la campagna dei Castelli Romani che si estendeva a Occidente in un variare di sfumature fino a una lunga linea cilestrina, sbiadita nella distanza. Capii che quella linea era il mare. Un soffio d’aria improvviso nel calore del pomeriggio estivo sembrò portare il profumo di altri mari. La frontiera dell’intimità, il tiepido nido, il guscio di noce dell’io svanivano nel richiamo possente dell’ignoto. Chiudendo gli occhi avrei potuto sentire alzarsi vele, udire i fischietti dei nostromi e il primo colpo di cannone dai prahos pronti all’abbordaggio: “I quattro prahos malesi che filavano come uccelli non erano più che a sette od ottocento passi e si preparavano ad assalire vigorosamente il povero tre-alberi. Il sole si alzava allora sull’orizzonte e permetteva di vedere chiaramente coloro che li montavano. Erano ottanta o novanta uomini, seminudi, armati di stupende carabine incrostate di madreperla e di laminette d’argento, di grandi parang di acciaio finissimo, di scimitarre, di kriss serpeggianti con la punta senza dubbio avvelenata nel succo d’upas, e di clave smisurate, dette kampilang, che essi maneggiavano come fossero semplici bastoncini”.
In questo spazio così nuovo da dare le vertigini l’orizzonte del linguaggio si apriva su parole che sentivo per la prima volta, frammenti di tante lingue diverse per indicare oggetti sconosciuti, come se davanti ai miei occhi un’altra volta qualcuno desse i nomi alle cose del mondo.
Diversi anni più tardi scoprii che la parola esatta per indicare la sensazione dominante che mi ispiravano quelle letture è “stupore”. Contemplare per la prima volta, incantati, attoniti, un mondo vergine, esotico, lontano, la sua flora, la fauna, gli esseri umani. E trovare le parole per raccontarlo. È di questo che Cristoforo Colombo scrive sul suo viaggio alle Indie. Il suo stesso stupore è anche di Salgari quando descrive paesi che non ha mai visitato, fenomeni naturali che ha solo immaginato, animali, piante, fiumi, mari, tribù umane, a differenza di Colombo conosciute soltanto nelle biblioteche che assiduamente frequentava per documentarsi in un lavoro minuzioso, maniacalmente scrupoloso fin nell’illustrazione dei dettagli.
Anche la mia cultura gastronomica, limitata agli spaghetti al sugo, agli gnocchi di patate, alle fettine panate, era destinata a un sostanzioso arricchimento davanti a passaggi come questo: “Il blaciang… è un miscuglio di gamberetti e di piccoli pesci tritati insieme, lasciati marcire al sole e poi salati. L’odore che esala da quell’impasto è tale da non poter reggere, anzi fa venir male. I malesi ed anche i giavanesi sono tuttavia ghiottissimi di quel piatto immondo e lo preferiscono ai polli e alle costolette succulente dei babirussa”.
Quante volte ho immaginato, per rendere più accettabile l’odiato baccalà, di star divorando quel cibo da veri uomini. E che dire delle proboscidi di elefante arrostite, dei cosciotti di nilgò, dei frutti dell’albero del pane, degli zamponi d’orso cucinati su forni improvvisati?
Coltivavo la lettura come un piacere solitario. Quei libri li divoravo, ma al tempo stesso mi pareva di vivere in una lentezza attonita, in un tempo sospeso. Il Sandokan televisivo di Kabir Bedi era di là da venire, e non conoscevo nessuno dei tanti filmetti in bianco e nero tratti da Salgari che erano stati prodotti fin dall’epoca del cinema muto. La raffigurazione dell’aspetto dei personaggi, delle azioni, luoghi, abiti, armi, vascelli e via dicendo, era affidata alla mia sola immaginazione, senza altro supporto esterno che quello delle figure di Albertarelli, nei primi tempi, e poi dei più antichi Della Valle, Gamba, Amato, insomma di tutti coloro che avevano illustrato le prime edizioni dei romanzi, quelle di Donath, di Bemporad, di Paravia, che anni più tardi sarebbero giunte fra le mie mani.
La scarsità di riferimenti visivi era dunque lo stimolo potente della mia fantasia. A partire dalla quale sentivo il bisogno di modellare una concretezza, una realtà visibile e a sua volta immaginaria, il gioco in cui re-immaginare situazioni destinate a non aver fine e a ripetersi infinite volte. Per questo erano necessari dei compagni, da istruire, da guidare, da comandare. Io, il capo indiscusso, l’unico detentore del “segreto”. Fui Sandokan. Fui il Corsaro Nero. Amai sublimi fanciulle dai lunghi capelli, la cui vita poteva esser cinta da una sola mano: anche se fin da allora mi chiedevo come fosse possibile… La “casetta del vento” dove trascinavo i miei fratelli e i bambini dei dintorni, fu la mia Tortuga. E soprattutto fu la mia Mompracem. Appresi molto più tardi come Salgari, che peraltro il fascismo aveva cercato di annettersi, avesse agito sulla formazione anticolonialista di tanti intellettuali e politici soprattutto in America Latina, dove le sue traduzioni circolavano con immenso successo. Paco Ignacio Táibo II, autore del recente Ritornano le Tigri della Malesia, dichiara che l’origine del suo antimperialismo è salgariana più che leninista. Del resto anche il Che Guevara, eroe salgariano se mai ve ne furono nella Storia – sì, ce ne fu uno prima di lui, Giuseppe Garibaldi, e Salgari lo aveva ben presente –, si diceva debitore dell’epopea di Sandokan e del Corsaro Nero, e raccontava di aver letto 62 romanzi sugli 80 scritti da Salgari.
Anch’io assorbivo quell’anticolonialismo; o meglio quella singolare visione libertaria in cui la simpatia per i popoli oppressi non contraddice la convinzione della superiorità della razza bianca: esclusi gli Inglesi, che oltre essere gli irriducibili nemici della Tigre della Malesia avevano tenuto mio zio prigioniero di guerra in India fino a tre anni prima, e anche per questo furono da me odiati con la stessa intensità che vibrava nelle pagine del ciclo malese. La netta distinzione fra buoni e cattivi era del resto trasversale: le carogne e i nobili cuori allignavano egualmente tra bianchi e non bianchi. Come tra Greci e Troiani. Mi viene da chiedermi se non fu allora, ben prima che mi mettessi a frequentare cattive compagnie e a leggere il Manifesto di Marx, che entrò in me quel rosso di una bandiera che peraltro a quei tempi ostentava una testa di tigre e non ancora la falce e martello di alcuni anni più tardi, quando Salgari era solo un affettuoso ricordo d’infanzia.
“E dall’ultima volta / che son sceso a bagnarmi in un punto mortale / e ho inseguito un compagno di giochi su un albero /… quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi, / altri squassi del sangue dinanzi a rivali / più elusivi:i pensieri ed i sogni”. Continuano così i versi di Pavese, e quel che dicono fu vero anche per me. Omero aveva da tempo sostituito Salgari. Ettore e Odisseo avevano preso il posto del Corsaro Nero. E ormai la “casetta del vento” non esisteva più. Non mi accorgevo ancora quanto in quell’estate del ’49 e negli anni immediatamente successivi fossi andato raccogliendo stimoli che attivavano nel mio inconscio immagini profonde, che avrei poi ritrovato in altre storie, in altri libri. Soprattutto le avrei ritrovate nell’Odissea in tutta la loro forza archetipale: il viaggio dell’eroe, la lotta fra Bene e Male, il senso dell’unità misteriosa del mondo, il mare, sede della libertà e delle passioni, spazio di incertezza dal quale possono venire sia vita che morte. E l’isola, perduta e riconquistata, il microcosmo da cui si parte e al quale si ritorna, carichi dell’esperienza che la vita ci ha data. Prima che imparassi ad amare appassionatamente l’Odissea, era stata Mompracem la mia isola ideale. Un’isoletta impossibile da trovare sulle carte, anche se qualcuno ha voluto identificarla in Keraman, “l’isola che scompare”, in malese, erosa dal mare. E del resto la stessa ubicazione dell’Itaca omerica è tutt’altro che certa: anche se in quella che chiamano Itaca trovai un giorno la grotta delle ninfe e riconobbi in cuore la casa di Odisseo tra le rovine archeologiche.
Un giorno, non ricordo come né perché, presi in mano uno di quei miei vecchi libri. Con tremore, preoccupatissimo all’idea di una delusione, lo rilessi. Vi scoprii parti deboli, ripetizioni, cadute. Vi ritrovai al tempo stesso il fascino di un mito delle origini. Alle spalle di Itaca sentii affiorare di nuovo Mompracem. Compresi come fosse stato con Salgari che avevo compiuto il mio primo viaggio. Il mio viaggio su quell’aeroplanino di legno, che aveva deposto in me i semi della nostalgia per un perduto e indefinibile “altrove”. Me la sono portata dietro tutta la vita, quella nostalgia, e solo in parte è riuscita a placarla la mia avida vocazione di viaggiatore, il mio desiderio possessivo delle culture altrui, degli altrui riti, simboli, paesaggi, storie. Da allora, periodicamente, ho continuato a leggere Salgari: in certi momenti in cui ho sentito il bisogno di aggrapparmi alle sicurezze del mio io bambino, convinto che la vita possieda per intero una direzione e un senso. Ho letto due romanzi più del Che Guevara: mi rallegra pensare che altri mi stanno aspettando.
Intanto la persona di Salgari era uscita dall’atmosfera misteriosa dalla quale era stata avvolta all’epoca in cui “Emilio Salgari” non era stato che un nome, quello dell’autore senza volto, distante come una divinità, che scriveva soltanto per me. Seppi come non solo non avesse mai navigato se non per una brevissima esperienza giovanile sull’Adriatico, ma non avesse neanche mai ottenuto il brevetto di Capitano marittimo. Seppi che era morto suicida a 49 anni: anzi, che si era fatto harakiri. Immaginai allora una lucidissima sciabola da samurai che con un colpo netto gli apriva il ventre, lui seduto su un ricco cuscino al modo orientale. Solo più tardi appresi che era stato un rasoio, e che tanti furono i colpi e tanto il sangue; e che non c’era stato nessun cuscino, ma le foglie secche di un bosco sopra Torino dove era solito recarsi coi figli, e che il suo corpo venne trovato da una lavandaia.
E venne la conoscenza di tutto il resto, i quattro figli, la grettezza degli editori e il regime schiavistico del suo lavoro; la crescente incapacità a tenere sotto controllo la propria scrittura, lasciandosi sopraffare da un’ossessione creativa che lo teneva legato alla scrivania col sostegno dell’alcool e di cento sigarette al giorno; e la follia, quella “allucinazione archetipale” che aveva avuto le sue prime manifestazioni nell’infanzia e che gli faceva identificare i frutti della sua immaginazione con la realtà vissuta: “Avevo ventitre anni quando caddi prigioniero del pirata Sandokan e della sua Mompracem. Sono stato schiavo e compagno di Sandokan”. E alla moglie, ancor prima del matrimonio, scriveva: “Tutte le follie di cui un uomo è capace io le ho provate: nato in una notte di tempesta, vissuto fra le tempeste e gli oceani ove l’anima diventa selvaggia…”.
Una biografia maledetta che si concluse con la moglie amatissima travolta dalla follia di lui dalla quale ben presto si era lasciata contagiare; e le difficoltà economiche che ne impedirono il ricovero in casa di cura aprendole così la porta del manicomio…
Alla luce di questa tragica vita, ora mi sembra di comprendere meglio la specifica forza mitopoietica di Salgari, nello strutturare le sue storie lungo una linea di coppie oppositive a partire dal rapporto a tutto tondo tra eroe e antagonista. Uno schema certo ben noto: tuttavia a caratterizzare l’immaginario salgariano è la stessa natura di quelle coppie oppositive, nel cui polo negativo affiorano, al di là delle necessità della trama e delle convenzioni del genere, torbide forze primordiali. Alla libertà infinita degli oceani si oppone “l’acqua nera”, l’acqua mortifera delle Sunderbunds del Gange o delle paludi centroamericane; ai paesaggi che paiono appena usciti dalla creazione, la buia caverna senza uscita dove strisciano ripugnanti animali; all’albero, portatore di foglie e di frutti, datore di cibo e di rifugio, il gigantesco banian nel cui interno cavo inizia la discesa al tempio sotterraneo di Khali; e contro le impavide, angelicate eroine si schierano figure femminili “fatali”, egualmente belle, e il cui fascino risiede in un erotismo malefico e mortale.
A considerarli solo in funzione della trama, si tratta di topoi consueti, propri di tanta letteratura popolare. Ma in realtà l’opposizione fra regime diurno e regime notturno delle immagini sembra corrispondere, nei migliori romanzi salgariani, a un prepotente affiorare di archetipi perturbanti piuttosto che al consueto conflitto su cui si fonda ogni storia d’avventure. Un sovrappiù di significato che sembra risalire a una segreta pulsione di morte. Ad esorcizzarla, è spesso soltanto la regola del genere che impone il lieto fine.
Risiede in questo sovrappiù il segreto della forza con cui Salgari era penetrato nel mio immaginario? Povero Salgari, quante edizioni, fumetti, film, quanta ricchezza ha procurato agli altri: denaro agli editori e ai cineasti, fantasia ai numerosissimi lettori in Italia e in tantissimi altri paesi… Accusato, inoltre, di scrivere male, lui al quale scadenze incalzanti che lo costringevano a sfornare quattro romanzi l’anno impedivano di rileggere i propri testi, che finiva per consegnare ancora umidi di inchiostro. E che tuttavia resta, come scrive Claudio Magris, il maestro “di un piccolo grande stile”. Vittima di se stesso, certo, ma anche vittima esemplare di un sistema che ha il profitto massimo come massimo scopo. Il mio fragile, folle, perdente capitano Salgari, che capitano non fu e la cui Odissea gli aveva negato il ritorno a Mompracem.
Si dovette aspettare il 2011, centenario della morte, perché Emilio Salgari lo conquistasse finalmente, il suo titolo: quando l’Istituto Nautico di Genova gli conferì, in riconoscimento degli avventurosi viaggi nei quali aveva guidato generazioni di lettori, il brevetto ad honorem di Capitano marittimo di gran cabotaggio.
E un gruppo di adulti che tornano bambini per giocare ai pirati ha cercato di restituirgli Mompracem. Identificandosi con i personaggi salgariani hanno messo in scena – al Teatro dei Rozzi di Siena nel dicembre del 2012 – , intrecciata e giustapposta alla contrastata storia d’amore tra Sandokan e la Perla di Labuan, tra il Corsaro Nero e Honorata Wan Guld, la vicenda di Emilio e Aida, innamorati e disperati, persi a loro stessi sulla dissolta frontiera della realtà. Nato in una notte di tempesta, si intitola il testo che ho scritto insieme a un giovane amico per il 150° anniversario della nascita di Salgari. In quel gioco il tempo smette di scorrere in avanti per farsi, come in ogni gioco, indefinitamente ripetibile. “Riconquisteremo Mompracem infinite volte”, dice infatti Sandokan a conforto di Yanez, del Corsaro Nero, della Perla di Labuan, di Honorata, dei tigrotti e dei filibustieri sgomenti sul futuro dopo la morte del loro creatore. Ritrovare in sé stessi adulti la capacità di stupore e la fantasia dell’infanzia: questo è il ritorno a Mompracem. Un lento avvicinamento. L’isola verrà perduta e riconquistata infinite volte, finché vivranno quelle pagine, finché durerà il gioco.
Dallo spettacolo:
"Nato in una notte di tempesta - Capitano Salgari"
di Francesco Tarquini e Fabio Morìci
rappresentato al Teatro dei Rozzi di Siena
il 12 dicembre 2012
regia di Altero Borghi
Francesco Tarquini
[ L'articolo qui riprodotto per gentile concessione dell'autore è apparso in prima pubblicazione sulla rivista Fili d'aquilone, nr 29, gennaio/marzo 2013 ]
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