Le donne nella vita di Salgari[1]




 

(Dedicato alla memoria di Luciano Tamburini)

 

 

La presenza del mondo femminile nell'opera di Salgari è ormai assodato essere un elemento fondamentale che trae le mosse, tra l'altro, dal suo indubbio interesse per il melodramma, dove la donna è molto spesso protagonista[2]. Tuttavia non si può non vedere come l'atteggiamento del papà di Sandokan contenga elementi, sicuramente consapevoli ma altrettanto sicuramente apolitici e se mai riconducibili al suo innegabile senso di giustizia ed uguaglianza, legati a quei movimenti per l'emancipazione femminile che già operavano ai suoi tempi.

Non v'è dubbio infatti che Salgari ha assegnato alla donna un ruolo di primissimo piano nella letteratura avventurosa, vantando una priorità che sarà interessante poter determinare con esattezza. Ovviamente la ricerca andrà rivolta all'estero, non certo in Italia dove il genere è stato creato dallo stesso Salgari. In particolare bisognerà prendere in considerazione la Francia e i paesi di lingua inglese, se non altro perché è dagli autori di quei paesi – i cui romanzi avventurosi ottenevano da tempo successo nelle nostre librerie- che Salgari ha tratto la materia prima per la sua rutilante officina. Così facendo attingeva da pagine dove, generalmente, domina il protagonismo maschile e dove non mancano fedeli e sedentarie penelopi in attesa del ritorno dell'eroe di turno, che arriva quando e se ne ha voglia, magari dopo aver soccorso deliziose fanciulle e conosciuto qualche Circe[3].

Salgari ha invece descritto donne giramondo più esperte degli uomini e capitane di navi, le ha fatte diventare sakem di tribù pellirosse- contro ogni riscontro storico- e per giunta scotennatrici così gli uomini imparano a fare i furbi, e guerriere, spadaccine, eroine di Port Arthur e di cento altre guerre e battaglie.  Dopo tutto non erano molto lontani i tempi in cui le donne non accompagnate, per non apparire scostumate, potevano solo compiere viaggi di pellegrinaggio oppure travestirsi da uomo; sicuramente erano ancora i tempi in cui le donne erano considerate inadeguate al viaggio e all'esplorazione ed è perciò che l'opera salgariana vanta qualche primato che potremmo definire femminista.

Va da sé che ispirazioni non peregrine, considerando la sua nota passione risorgimentale, gli furono offerte dalle eroiche donne del nostro Risorgimento, appunto, quali Antonia Masanello, che si spacciò per maschio e combatté con le camicie rosse come caporale o Maria Martini Giovio della Torre, che si unì ai Mille di Garibaldi come ufficiale delle Guide[4]; di molte altre narra in forma romanzata per la gioventù Olga Visentini in Donne del Risorgimento[5].

Nel descrivere le proprie eroine, d'altronde, Salgari ha sempre prestato attenzione particolare alla loro femminilità, alle loro grazie, facendo uso di soprannomi che volano sull'onda del romanticismo: La Perla di Labuan, Il Fiore delle Perle, La Gemma del Fiume Rosso, La Perla di Manila, La Rosa del Dong Giang e persino La Stella dell'Araucania, che rimanda all'altra metà del cielo. Insomma, in fatto di emancipazione femminile, ha costruito un'utopia romantica.

Alla quale, per passare a donne reali, appartiene anche la frequenza con la quale ha inserito nelle sue pagine avventurose molte di quelle viaggiatrici dei secoli passati di cui oggi ci si occupa con attenzione particolare[6], come Alexandrine Tinnè (1839-1869), Ida Pfeiffer (1797-1858) o Maria Sibylla Merian (1647-1717)[7]. Si è altresì occupato di donne protagoniste di impreviste disavventure e drammi, quali Elisa Bravo, naufragata nel 1849 sulle scogliere di Arauco[8] o Isabelle Godin, sperduta nell'Amazzonia sul finire del Settecento[9], per fare qualche esempio: anche a loro gli storici hanno prestato recenti attenzioni, a dimostrare la validità e l'attualità degli interessi salgariani. Interessi che non potevano escludere le donne della pirateria, visto che – dopo aver narrato le imprese di Jolanda la figlia del Corsaro Nero- Salgari ha citato, presumibilmente con l'acquolina alla bocca, Mary Read e Anne Bonny[10].

Questo per accennare a quali argomenti “femminili”salgariani io abbia dovuto rinunciare, in questa sede, per poter invece entrare nella vita quotidiana del romanziere. Vita nella quale sarebbero potute entrare, a livello di conoscenza personale – e le possibilità esistono- donne come Vincenzina Ghirardi Fabiani, scrittrice torinese nota con lo pseudonimo Fabiola: di una sua novella intrisa di pessimismo, con un protagonista misogino e depresso, intitolata Vita eccentrica – Scene fine di secolo (1895), Salgari scrisse (stessa rivista, 1896) un seguito molto significativo con lo stesso titolo: quel personaggio guarisce infatti con estrema facilità dalla misoginia e anche dallo spleen incontrando la bellissima Afza nel Sahara[11]. Nel 1895 le felicitazioni autografe di Fabiola e di Salgari compaiono, fra numerose altre, in un albo appositamente predisposto per le nozze di Francesco Speirani (1844-1917), editore torinese di entrambi. Un incontro personale è dunque ipotizzabile.

Donne, poi, come l'attrice veneziana Amelia Dal Negro, in arte Amelia Soarez: in un'occasione (1909) dimostrò attenzione alle opere di Salgari per il proprio lavoro sul palcoscenico: non se ne fece nulla ma Emilio, riconoscente, diede al figlio di Yanez il nome Soarez[12]; o come Maria Savi-Lopez (1846-1940) appassionata cultrice delle testimonianze della fantasia popolare: fu collaboratrice dei torinesi Speirani e ispiratrice di Salgari con il suo Leggende di mare (1894): ma, per la verità, le possibilità di conoscenza personale, in questo caso, sono ridottissime. Appartengono invece alle sfere dell'utopia, benché le potenzialità siano evidenti, gli incontri personali con Lady Margaret Brooke, principessa di Sarawak, parente del famoso James Brooke, nemico di Sandokan. Il fatto è che, come ho già avuto occasione di scrivere, Lady Margaret ha soggiornato a Bogliasco dal 1898 al 1901 e dunque a un tiro di schioppo da Sampierdarena, dove Salgari abitò dal 1898 al 1899[13].

Ma, insomma, per restringere il campo d'azione alle donne che Salgari ha sicuramente frequentato non resta che accostarsi all'ambito famigliare, tanto più che non stiamo parlando di D'Annunzio, né di Lord Byron o di George Simenon  e allora non c'è da raccontare storie extraconiugali, passioni clandestine e cose del genere.

E anche l'ambito famigliare sembra restringersi con il trascorrere del tempo: si ha addirittura la sensazione, guardando agli ultimi anni, che Emilio e sua moglie vivano in isolamento, in una sorta di isola, appunto, dove la presenza dei quattro figli non riesce a infrangere o placare i loro problemi interiori, che anzi si direbbero acuiti reciprocamente, perché non c'è scampo per due persone sensibili, con i nervi a pezzi e una probabile inclinazione all'alcolismo[14], senza vita sociale, senza il sostegno morale e le attenzioni disinteressate di persone adulte. E' significativo il fatto che entrambi, autonomamente, all'estremo della lotta, abbiano pensato soltanto al mondo dei lettori, un esercito di fedeli e di appassionati di cui avevano piena consapevolezza, allo scopo di mettere al riparo i loro cari. Ida, nel 1910, scrisse una lettera al giornalista Antonio Casulli di Napoli- che di recente li aveva intervistati- proponendo un'iniziativa che servisse a sollevare il morale di Emilio coinvolgendo i lettori: Casulli, anni dopo, dirà di non averla mai ricevuta. Ed Emilio, nella lettera di addio ai figli (22 aprile1911) scriverà: “Io spero che i milioni dei miei ammiratori che per tanti anni ho divertiti e istruiti provvederanno a voi...”.

Proprio a Casulli Ida, sconsolata, aveva confidato, in quell'intervista: “Siamo lontani dai teatri, dalle feste, dai ritrovi. I bimbi sono in collegio, Fathima va tre volte la settimana a Torino per le sue lezioni di canto, ed io sono qua, sempre qua.” Avrebbe mai immaginato, quand'era giovane e promettente attrice dilettante nei teatri veronesi, un destino così inclemente?

L'unica amante nota di Salgari è quella di cui lui stesso raccontò in gioventù, millanteria soffiata nell'orecchio della sua fidanzata e poi moglie, Ida Peruzzi. Si tratta della splendida Panchita, conosciuta durante quei viaggi in paesi lontani, paesi di febbri, di coltelli e di vendette – come lui stesso diceva e scriveva a Ida- viaggi che sappiamo non essere mai avvenuti.

Le lettere fioccavano, pur essendo entrambi a Verona, splendido surrogato del telefono ed Emilio sfoggiava la sua prosa avventurosa, ad effetto, toccando le corde giuste, rimediando ai reciproci e passeggeri malumori. In una lettera di sei pagine, che si conclude con la certezza d'un appuntamento, le scrisse tra l'altro:

 

Sono strane tempeste che certi giorni mi scoppiano nel cuore; strani fremiti che mi corrono pel sangue e come un desiderio ardente di libertà, di emozioni e forse qualche cosa di peggio delle semplici emozioni.

E' tutto ciò che mi ha lasciato in fondo al sangue la mia vita passata e che forse mai cancellerò per quanto lo tenti.

Guarda, non ci sono forse delle notti che io non dormo? Delle notti in cui dei pensieri mi perseguitano come se la mia anima fosse accessibile ai rimorsi per tutto ciò che ho fatto laggiù, in quel paese di belve umane, in quel paese del coltello e delle vendette. E anche Panchita, che tu così sovente mi ricordi, getta nel mio sangue degli strani turbamenti che mi fanno diventare cattivo in certi momenti di malumore.

Vedi bene che se talvolta mi trovi inquieto o poco espansivo non è perché mi annoio con te o perché ti voglio poco bene ma perché il mio passato ha lasciato delle traccie incancellabili e dei ricordi profondi che quando si risvegliano, risvegliano anche tutti gli impeti della mia natura violenta colle sue tempeste e le sue furie.

Ed ora cambierai? Lascerai da parte quelle tue bizzarrie e quelle minacce? Me lo dirai?

E mi fermo, certo di averti scritto più di quanto tu speravi.

Un bel bacio dal tuo

Selvaggio malese

Stassera alle 7 ½ sarò alla stazione di Porta Nuova. Mi surrogano[15].

 

Salgari era un accorto inventore. Infatti quelle millanterie erano utili per conquistare la sua Ida, sapendo che molte ragazze provano interesse per gli uomini che lasciano intravedere tutto un passato.

Inventore così accorto da scrivere bugie persino- si può dire- sulla tomba della madre, Luigia Giustina Gradara, veneziana, nata nel 1843 e morta di meningite acuta a soli 44 anni. Sappiamo infatti dell'articolo che ha pubblicato su “L'Arena” nella ricorrenza dei morti nel 1887, dopo soli otto mesi dalla scomparsa della madre e conosciamo le cose che ha scritto in quell'articolo: gli parve che il fantasma di lei uscisse dalla tomba avvolta in un bianco sudario a ricordargli i baci che gli aveva dato e le lacrime che aveva versato quando lui tornava dopo lunghi mesi trascorsi nelle tempeste del mare. Ma, appunto, sappiamo ciò che ha scritto, essendo allora – e si vede- un romanziere d'appendice; sappiamo insomma ciò che ha pubblicato su un giornale veronese allo scopo di accreditare le proprie millanterie marinaresche ormai note a tutti in Verona. Ma non sappiamo cosa abbia davvero detto e pensato sulla tomba della mamma, che amava teneramente. Lo possiamo soltanto immaginare.

Risalgono agli anni anteriori al matrimonio le frequentazioni veneziane con le donne della famiglia materna: la nonna Matilde Gradara, la zia Filomena (sorella di Luigia Giustina), la di lei figlia Ilda Michieli e le figlie di quest'ultima, Anita, Ada e Welda[16]: in seguito la strada di Emilio si diresse altrove e quei parenti sparirono dalla sua vita per sempre.

Poi, appunto, il matrimonio e cioè Ida Peruzzi, la compagna della sua vita, la madre dei suoi quattro figli, che lui chiamerà sempre Aida. Una ragazza passionale, spigliata, molto intelligente, sensibile. Lievi tracce di esantema al viso, che non spariranno più dopo qualche malanno infantile, non ne turbano affatto la bellezza un po' selvaggia ed anzi accrescono il suo fascino.

Si sono sposati che lei aveva 24 anni e lui 29: era il 30 gennaio 1892. E ancora due anni dopo lui le regala una copia del romanzo che ha appena pubblicato, Le novelle marinaresche di Mastro Catrame , con una dedica: “Rammentati, Aida, con queste vicende marinaresche, del tuo antico uomo di mare”[17]. La situazione suggerita da questa dedica ha sempre sollecitato la mia curiosità. Già nel 1995 ho avuto modo di dire:

 

Lorenzo Chiosso (...) conobbe Salgari nel 1902. Il 25 febbraio 1928 ebbe a ricordare come Salgari gli raccontasse delle sue avventure malesi e del suo amore per una donna sepolta nella terra dei dayaki e come gli raccomandasse di non dire nulla di tutto ciò alla moglie la quale, pur essendo al corrente, ne sarebbe rimasta assai turbata. Se si tratta di una testimonianza affidabile[18], per tutta la vita la moglie di Salgari fu convinta del burrascoso passato di Emilio.

C'è da chiedersi se sia davvero così facile ingannare l'intuito femminile per tanto tempo e per di più l'affettuoso intuito di una moglie.[19]

 

Ora mi fa piacere pensare che dopo aver ceduto alla leggenda, Ida, giovane e innamorata, abbia in seguito fatto finta di credere che il suo Emilio fosse un capitano e persino che fosse stato amante di Panchita nel paese della vendetta e del coltello: le mogli devote sono sovente come le mamme.

Il loro matrimonio è durato meno di vent'anni e poi il ricovero di lei in manicomio, il 19 aprile 1911, e pochi giorni dopo,  il 25 aprile, il suicidio di lui.

Giovanni Arpino e Roberto Antonetto hanno scritto di un amore grande: lei lo amò sino alla pazzia e lui sino alla morte. Da quello che sappiamo, in sostanza è così, al di fuori di ogni retorica.

Ida si adegua in tutto alle esigenze del marito scrittore, anche perché l'attività di lui è l'unica fonte di reddito per la loro famiglia sempre più numerosa; lo aiuta, anche, scrive lettere di lavoro per conto suo, lo consiglia, lo sorregge, lo asseconda.

Vivono insieme molti anni felici, di complicità, di passione. E di litigi, come in tutte le famiglie.

Negli ultimi anni, quando lui è vittima di una forte depressione, di insonnie, crisi di panico, lei  scrive al suo editore e al già citato Casulli, chiede aiuto, si dibatte come un uccellino in gabbia che non trova una via d'uscita: ci sono lettere davvero toccanti.

Il cognome Peruzzi è una sorta di istituzione italiana per via del ramo toscano, documentato all'inizio del tredicesimo secolo e perciò molto ricco di nomi illustri e di storia.

Per rimanere in tempi prossimi a Salgari basterà ricordare Ubaldino Peruzzi de' Medici (1822-1891), che fu sindaco di Firenze e uno dei primi ministri del Regno d'Italia.  Il fatto che fosse omonimo di uno dei fratelli di Ida, Ubaldino Peruzzi, nato nel 1875, è una coincidenza che suggerisce un lontano legame, chissà per quali rami, con i Peruzzi veneti. 

Moglie del ministro fu una grande figura di donna, famosa per il suo salotto culturale fiorentino: Emilia Toscanelli (1826-1900), alla quale De Amicis scrisse ottocento lettere in trent'anni.

Nel febbraio 2005 il compianto amico Luciano Tamburini, studioso di De Amicis e di Salgari, ha condiviso con me l'idea di verificare per quali bizzarri rami genealogici la sorte avesse condotto nella vita di entrambi gli scrittori una Peruzzi (va bene che Emilia era nata Toscanelli), ma fu presto chiaro che quella particolare curiosità sarebbe costata troppo tempo e troppi sforzi di esito incerto.

I Peruzzi veronesi che conosce Salgari sono piccoli borghesi, laboriosi, numerosi. Il papà di Ida, Gaetano (1834-1881), lavorava nelle ferrovie; la mamma, Giustina Montresor, è già vedova quando entra in scena Salgari, ed è reduce da una vita di continui spostamenti per il lavoro del marito, tant'è vero che alcuni dei suoi dieci figli- di cui sei morti in tenera età[20]- non sono nati a Verona: il citato Ubaldino, ad esempio, è nato in una frazione di Pieve S. Giacomo in provincia di Cremona, dove il padre era capo stazione e Ugo, suo fratello, è nato a Padova nel 1871.

E' nata a Verona nel 1873, invece, la sorella di Ida, Augusta Maria, che Emilio conobbe bene perché costei si sposò con Giovanni Vittorio Buo, un commerciante torinese di vent'anni più vecchio della sposa, contemporaneamente a lui con Ida, in un'unica cerimonia.

Tutti costoro si trasferirono a Torino, quasi sulla scia di Emilio e quasi a formare una piccola comunità; è logico pertanto che Emilio ne frequentasse le famiglie nei limiti dei rapporti tra parenti. Delle donne, va citata Teresa Savago, moglie di Ubaldino.

Nell'agosto 1903 Emilio scrive a Ida, momentaneamente lontana da casa, forse per cure in seguito all'aborto spontaneo di due gemelli avvenuto in quel periodo. Scrive fra l'altro:

 

Mi scrivi chiedendomi il motivo perché i tuoi non vengono. Ubaldo è stato l'altro giorno ma non ha tempo disponibile perché volendo guadagnarli tutti lavora come un cane e non sbarca mai prima delle 11 di sera ed ha rinunciato a tutti i giorni franchi. Tua madre ogni due o tre giorni fa qui una scappata di qualche minuto, ma amichevole[21]. Non ha tempo causa l'orario di Ubaldo che la tiene occupata tutto il giorno, ed ha Gaetano ammalato[22]. D'altronde le ho detto che per la casa ce la sbrighiamo noi, preferendo non disturbare nessuno. Mi lava però a casa sua tutte le robe di colore e mi fa da questo lato un gran favore. Quindi la tua stoccata cade da sé completamente.[23]

 

Dove pare d'intravvedere una certa ritrosia di Emilio circa le visite dei parenti di Ida (pur vantando una salda amicizia giovanile con Ugo) così da suscitare qualche lamentela.

D'altronde, dopo la sua morte, saranno i Peruzzi a interessarsi degli orfani e anche degli affari editoriali riferiti ai lavori postumi e apocrifi di Emilio.

Ma in quella stessa lettera, piena di conti e resoconti, esibisce una conclusione esemplare:

 

E' alla sera soprattutto che mi trovo profondamente isolato non trovandoti al mio fianco quando la notte mi sveglio. Mi sembra che il letto senza il profumo della donna diventi una landa infinitamente triste senza il profumo d'un fiore. Ma l'eliotropio[24] lo aspirerò presto sulle tue carni, è vero Aida? Lo desidero ardentemente, tanto ardentemente. Addio mia Aida, torna come eri un tempo e non ti chiedo di più. Una bacio sulla bocca, scrivi...”

 

E sette anni dopo, nel 1910, l'anno che precede la tragedia, le scrive: “Dimentichiamo in questo momento tutto ciò che può aver offuscato la nostra vita e continuiamo sempre il nostro sogno d'amore cominciato un giorno nella mia casa in un istante di delirio[25] che doveva segnare il nostro destino e la nostra unione delle anime....

Dove si intravedono vicende di donne eroiche non sulle navi o nelle praterie, ma nei mari agitati della quotidianità, delle preoccupazioni famigliari; e anche la suocera di Emilio, Giustina Montresor, che fa il giro delle case torinesi dei suoi numerosi figli e nipoti per rendersi utile con tutti, è una figura emblematica.

Ida morirà nel manicomio di Collegno, a Torino, il 10 gennaio 1922, a 55 anni, di un male incurabile. Non era più uscita da quelle mura da dove – colpa delle circostanze e dei tempi- sicuramente sarebbe potuta uscire molto tempo prima e dove in tempi più moderni non sarebbe neppure entrata potendosi tranquillamente curare in casa, accanto ai figli.

In una lettera del novembre 1911, ossia di circa sei mesi dopo il ricovero- lettera pubblicata da Claudio Gallo e da Caterina Lombardo- Ubaldo Peruzzi, zio e tutore degli orfani Salgari, scrive all'editore Bemporad che Ida “è in via di guarigione e quanto prima uscirà dalla Casa di salute”. Le cose sono andate diversamente, purtroppo.

 A trovarla in quella “Casa” andava anche sua sorella Augusta Maria: lo sappiamo perché qualche medico ha trascritto nella pagina della tabella nosografica riservata all'anamnesi, tra le altre cose, ciò che appunto la sorella gli aveva riferito il primo maggio 1911 nei riguardi di Ida: si tratta di particolari intimi e biografici che sono già stati divulgati altrove da altri.

In quella stessa pagina (ma prima che il medico citi la sorella e dunque non è agevole comprenderne la fonte) compare la notizia secondo cui Ida sarebbe diventata mamma single all'età di 19 anni (“ di un bambino attualmente vivente”), circostanza di ardua verifica e tuttavia tale da suscitare il comprensibile interesse dei biografi.

Ida ha ottenuto alcuni omaggi nell'opera di Emilio: il più importante è nel capolavoro pubblicato nel 1898: Il Corsaro Nero. Il famoso eroe salgariano, che non a caso si chiama Emilio, è fulminato d'amore al primo sguardo da una bella fanciulla e in seguito le rivolge più o meno la stessa frase che lui, Salgari, aveva scritto alla sua Ida quando erano fidanzati: “Il mio istinto mi dice che tu mi sarai fatale...”. Quella fanciulla ha un nome che è tutto un programma: Honorata![26]

E' figlia di Wan Guld, lo spietato, acerrimo nemico del Corsaro Nero e dunque Salgari rievoca per lei anche l'amore forse più famoso in assoluto, non solo a Verona, ma in tutto il mondo: quello tra figli di famiglie nemiche, tra Romeo e Giulietta.

Del Corsaro Nero Emilio ha donato una copia ad Augusta, con dedica: “A mia cognata Maria in ricordo dell'Autore” e si è firmato “Cav. E. Salgari”[27].  Non pare una dedica troppo formale? Quali erano i loro rapporti? Al terzo figlio, peraltro, Augusta Maria aveva dato nome Giannino Emilio: certamente un omaggio al cognato, quel secondo nome[28].

Anche Emilio aveva una sorella: Clotilde di due anni più giovane. Quel che sappiamo di lei si deve alle ricerche di Gian Paolo Marchi, che ha documentato l'attaccamento fraterno di Emilio, il quale dopo la morte dei genitori visse con lei (ma anche con il fratello Paolo) a Verona in Vicolo Racchetta 1, vicino a Porta Leoni. Poi Clotilde lo seguì in Piemonte: è morta a Torino nubile, casalinga, a soli 33 anni, nel maggio 1898[29].

Quando Salgari scrisse a Ida la lettera già citata dell'agosto 1903 le diede notizie dei figli e scrisse “Fathima è una vera donnina”. Fathima, la primogenita. Aveva allora quasi undici anni e par di vederla darsi da fare in casa mentre la mamma è assente per curarsi.

Era nata l'8 novembre 1892, a Verona, oltre nove mesi dopo il matrimonio.

E all'anagrafe torinese ho visto che- salvo trascrizioni errate degli addetti comunali- Fathima si scrive proprio con TH, a dare quel po' di straniero, di esotico, che piaceva a Salgari. Il nome deriva dall'arabo Fàtimat e significa “colei che divezza i bambini”. Si chiamava così la sorella di Maometto, personificazione della virtù e della grazia femminile. Nulla a che fare con l'apparizione della Madonna a Fatima, avvenuta nel 1917.

Di lei, Fathima, non si hanno molte notizie. La citata anamnesi del 1911 la definisce, alla nascita, “bambina fisicamente mal costituita”, circostanza che le immagini note assolutamente non rivelano. Appare invece carina nel bel primo piano di una fotografia che, senza immaginare l'imminente tragedia, regala con dedica a Ida: “Alla mia cara mamma in occasione del suo onomastico”: è il 13 aprile 1911[30].

Sappiamo delle sue lezioni di canto e di pianoforte a Torino, di qualche sua allegra esibizione musicale e canora al Circolo dei meridionali nella stessa città e poi di fronte al giornalista Casulli, in casa Salgari, quale gesto di ospitalità. Casulli ne restò estasiato, ne diede una descrizione affettuosa e tornato a Napoli le inviò spartiti di canzoni napoletane. In una lettera a Giuseppe Turcato la definì “molto delicata”[31].

E' morta di malattia a soli 21 anni, a Torino, il 14 luglio 1914, nubile. L'anagrafe la definisce “cucitrice”. Significa che si era data da fare, da brava donnina, per guadagnare qualcosa dopo essere rimasta senza genitori.

Secondo alcune versioni non verificabili pare sia stata lei a trovare il papà ferito, nel 1909, dopo un tentativo di suicidio con la spada; e che abbia scherzato con lui il 22 aprile 1911 vedendolo scrivere le famose lettere di addio: “Stai scrivendo alle tue fidanzate, papà?”.  Nella lettera ai figli, Emilio stava invece scrivendo: “La pazzia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le mie energie...

E allora si può dire davvero che Ida amò Emilio sino alla pazzia e lui amò Ida sino alla morte.

 

Vorrei dire ancora, e finisco, del grande amore rivolto a Salgari da un autentico esercito di bambine, ragazzine, ragazze, mamme e nonne: generazioni intere di spiriti femminili fanciulleschi e romantici di ogni età e cultura e di ogni ceto sociale: le sue lettrici, attratte dalle sue eroine, dalle sue tantissime pagine che facevano vibrare intensamente le corde del sentimento. Parlo al passato perché oggi i tempi sono maledettamente cambiati.

Nessuna lettrice ha dimenticato, ad esempio, l'episodio conclusivo del romanzo La Regina dei Caraibi, che, per pura coincidenza, rammenta vagamente, come una metafora, qualche vicenda di Emilio e di Ida.

Il Corsaro Nero, esaltato come il solito, sta per togliere la vita a sé e a Honorata combattuto fra onore e amore, anche se ormai Wan Guld,  l'assassino dei suoi fratelli, il padre di lei, è morto e il giuramento di sterminare tutta la famiglia Wan Guld è superato: già, anzi, le ha chiesto perdono per averla abbandonata nell'oceano in tempesta (nel romanzo precedente).

Restano soltanto i fantasmi dei suoi fratelli assassinati che insistono a tormentarlo: allucinazioni, residui psicologici o psichiatrici di tutta una vita spesa a inseguire la “giusta” vendetta e a trascurare l'amore.

E l'amore di Emilio e Honorata, appunto, è ancora incompiuto, platonico, sofferto e deve trovare finalmente una soluzione.

Lei comprende sino in fondo il delirante conflitto interiore dell'uomo che ama. Lo asseconda, paziente e seducente: ha la testa appoggiata sulla sua spalla in quella notte di luna piena...

Quando lui la solleva e si avvia verso le onde del mare a cercare la morte, lei non si ribella. Lo abbraccia e persino i suoi lunghi capelli biondi lo avvolgono per formare un tutt'uno.

E quando, in un attimo di lucidità,  lui le chiede “La vita o la morte?”, lei risponde con un filo di voce “L'amor tuo...

E' così che poi arriverà Jolanda, la figlia del Corsaro Nero!



Felice Pozzo



[1]    E' il testo della mia relazione presentata al Convegno “La donna nella vita e nell'opera di Emilio Salgari”, tenutosi a Verona il 22 ottobre 2010. Spedita al curatore Silvino Gonzato in data  13 dicembre 2010, è stata pubblicata nei relativi Atti, che ho ricevuto  il 21 dicembre 2011. Purtroppo, per un errore di trasmissione, sono state omesse tutte le note, che oltre a completare il testo contengono anche molte notizie inedite, in particolare riferite alla sorella di Ida Peruzzi, moglie di Salgari. Pubblico qui il testo integrale, anche per far cosa gradita a Silvino Gonzato, dispiaciuto per l'incidente tecnico, e a tutti gli organizzatori del Convegno, per non parlare delle persone citate in nota.  Spero sia lettura gradita a tutti. Ringrazio Corinne D'Angelo per la disponibilità.

[2]    Cfr. F. POZZO, Emilio Salgari e dintorni, Napoli, Liguori, 2000, pag. 111.

[3]    Non mancano peraltro, nella bibliografia di uno dei maestri di Salgari, Thomas Mayne Reid (1818-1883), almeno un paio di titoli di romanzi al femminile: ad esempio The savage huntress, che Salgari potrebbe aver letto nell'edizione popolare e non integrale in due volumetti (La cacciatrice selvaggia) edita da Guigoni nel 1884. Lo stesso romanzo- ugualmente potenziale lettura di Salgari- fu stampato nel 1876 dalla Tipografia Editrice Lombarda di Milano con il titolo variato – ma sempre al femminile- in Le due figlie dello squatter. Il secondo romanzo di Mayne Reid con  donne nel titolo, salvo omissioni, è La sorella perduta.

[4]    Di entrambe si è occupato diffusamente Massimo Novelli su “La Repubblica”, rispettivamente il 16 maggio e il 29 luglio 2010.

[5]    Conosco l'edizione Carroccio dell'aprile 1960, curiosa perché illustrata da quello stesso Golpe che, per lo stesso editore e nello stesso periodo, ha illustrato numerose ristampe popolari salgariane.

[6]    Cfr., ad es., L. ROSSI, L'altra mappa – Esploratrici, viaggiatrici, geografe, Reggio Emilia, Edizioni Diabasis, 2005.

[7]    Rispettivamente nei romanzi I predoni del Sahara (1903), I naufragatori dell'Oregon (1896) e La Città dell'Oro (1898).

[8]    Nel romanzo La Stella dell'Araucania (1906). Di Elisa Bravo si è più recentemente occupato Francisco Coloane nel volume Naufragi, Parma, Guanda, 2004, pp. 116-119.

[9]    Nel racconto Perduta tra le solitudini dell'Amazzonia (1902). A questo drammatico personaggio Robert Whitaker ha dedicato addirittura un  volume : La moglie del cartografo, Milano, Garzanti, 2005.

[10]  Nel romanzo Gli ultimi filibustieri (1908).  Si vedano, sull'argomento in generale, il volume di Sara Lorimer Booty, Girl Pirates on the High Seas, Chronicle Books, 2002 e quelli, in traduzione italiana, di David Cordingly Donne corsare, Casale Monferrato, Piemme, 2004 e di Daniel Defoe, Vite di pirati, a cura di Paola Carmagnani, Palermo, Sellerio, 2004.

[11]  Cfr. F. POZZO, Vita eccentrica d'un misogino americano narrata da Fabiola e da Salgari, in “Almanacco Piemontese 1995”, Torino, Viglongo, dic. 1994, pp. 158-167.

[12]  L'episodio, dimostrato con lettere tra Salgari e Giuseppe Garuti, è stato rievocato per la prima volta da Mario Morini (1929-2005) nel 1953.

[13]  Sull'argomento cfr. anche Bogliasco qui, Bogliasco là, a cura di Pier Luigi Gardella, Genova, Feguagiskia Studios Ed., 1998, pag. 100.

[14]  La tabella nosografica di Ida presso il Regio Manicomio di Torino annota “sogni terrifici specifici dell'alcolismo”.

[15]  Evidente riferimento agli impegni giornalistici.

[16]  Si rimanda, per queste frequentazioni, ai frizzanti ricordi di Welda Michieli Epifani, raccolti da Giuseppe Turcato e pubblicati nel volume Viva Salgari!, a cura di Claudio Gallo, Reggio Emilio, Aliberti Ed., pp. 218-224.

[17]  Ne devo notizia agli eredi Salgari di Montà d'Alba.

[18]  Lorenzo Chiosso, personaggio non sempre affidabile, stava in buona sostanza pubblicizzando le apocrife Memorie di Salgari (Mondadori, 1928) di cui era stato ghostwriter.

[19]  Relazione intitolata Le rispettabili bugie e le leggende postume di Salgari al Convegno Il caso Salgari, Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, 3-4 aprile 1995. Cfr. Atti del Convegno, Napoli, CUEN Ed. 1997, pag. 141.

[20]  Giulio Peruzzi, ad esempio, nato a Verona il 9 luglio 1881 e morto il 28 settembre dello stesso anno.

[21]  Nella stessa lettera informa che la mamma gli ha restituito un prestito di sette lire.

[22]  E' esistito anche un fratello di Ida di nome Ubaldo, nato a Verona nel 1865, ma qui Emilio si riferisce a Ubaldino : il “Gaetano ammalato” era appunto uno dei quattro figli di Ubaldino, ed era nato a Verona nel 1895.

[23]  Tranne per le prime due frasi che risultano omesse, ma poi per tutto il resto della lunga lettera, una delle poche reperite che ci illuminano sulla vita quotidiana di Emilio: cfr. S. GONZATO, Emilio Salgari – Demoni, amori e tragedie di un “capitano” che navigò solo con la fantasia, Vicenza, Neri Pozza, 1995, pp. 138-140.

[24]  Questa frase ha in passato indotto a scrivere di vezzi strani con riferimento al letto matrimoniale di Salgari. In realtà è da collegarsi alla frase precedente (“profumo d'un fiore”). L'eliotropio, come è noto, è altresì detto “fiore della vaniglia”. Secondo il significato dei fiori è un omaggio ardito, perché esprime voluttà, rapimento dei sensi, a dimostrare il trasporto di Emilio nel corteggiare la moglie.

[25]  Emilio si riferisce ad una lettera del periodo di fidanzamento nella quale, su richiesta di Ida, le descrisse in modo estremamente romantico e passionale il loro primo incontro d'amore avvenuto il giorno precedente. Cfr: R. ANTONETTO, Povera Aida!, in AA.VV., Quaderni salgariani, Torino, Viglongo, 1998, pp. 21, 22.

[26]  Honorata non è una rappresentazione sulla carta di Ida: come si è detto è solo il tramite per un omaggio e per qualche cenno autobiografico, come accade di rintracciare sovente nell'opera di Emilio. Circa la scelta del nome, non è da escludere possa trattarsi di un omaggio particolare, in risposta alle voci su Ida che forse circolavano a Verona in quegli anni di buia mentalità benpensante.

[27]  Cfr. F. POZZO, Salgari, ricordi di famiglia, in “La Sesia”, Vercelli, 22 settembre 2006. La fonte è ancora costituita dagli eredi Salgari di Montà d'Alba.

[28]  Giannino Emilio è nato a Torino il 7 settembre 1894. Maria, la primogenita di Augusta, è nata a Verona il 19 marzo 1891, un anno prima del matrimonio, avvenuto, come si è detto, il 30 gennaio 1892: alla nascita della bambina Augusta aveva 18 anni. Il secondogenito, Arnaldo, è nato a Verona il 6 luglio 1892.

[29]  G.P. MARCHI, Appendice di documenti, in Tay-See * La Rosa del Dong Giang, introduzione, testo critico e appendice a cura di Gian Paolo Marchi, Padova, Antenore, 1994, pp.317- 320.

[30]  Fonte: eredi Salgari di Montà d'Alba. Ringrazio sentitamente Anna Salgari e Romero Salgari junior.

[31]  Cfr. Viva Salgari!, cit., pag. 84.


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