Quantunque non sia più sede del governo e sia molto decaduta dall'antico splendore, un po' per incuria degli abitanti ed un po' per volere dell'Impero moscovita, che mirava ad innalzare invece Omsk ed Irkutsk, Tobolsk è rimasta ancora una delle più importanti, delle più popolose e delle più pittoresche città della Siberia occidentale.
Situata sulla riva destra dell'Irtish, aflluente dell'Ob, dirimpetto al punto di confluenza del Tobol, signoreggia sopra la steppa circostante e si fa scorgere molto da lontano colle sue cupole ardite dipinte a vivaci colori e col suo kremlino cinto di mura merlate. Come tutte le città asiatiche, è divisa in due parti distinte: la città alta, che racchiude il kremlino, situato ai piedi d'una roccia che s'innalza un centinaio di metri sul fiume, con un palazzo per i funzionari governativi, caserme per i soldati e le guardie di polizia, prigioni per gli esiliati, una cattedrale ed una chiesa secondaria; e la città bassa, composta di case di meschina apparenza, abitate dalla popolazione indigena, ossia tartara, di casupole di legno cinte da piccoli orti e di bazar coi tetti dipinti a smaglianti colori.
Sebbene sia una città antica, essendo stata eretta subito dopo la conquista della Siberia, sembra assolutamente moderna. L'unico monumento che esista è un obelisco, innalzato a ricordo di Jerneak Timofcief, l'ardito etmanno dei cosacchi del Volga, che nella metà del secolo XVI, alla testa di ottocentoquaranta guerrieri, debellava i tartari e gli ostiaki di Kutsciúm, assicurando alla Russia il possesso di quella sterminata regione che dai confini dell'Europa corre fino alla stretto di ßehring.
La sua popolazione, composta in piccola parte di russi, dediti per lo più al commercio delle pellicce, di tartari e di samoiedi, conta ancora un quindicimila anime, ma tende costantemente a scemare. Di quando in quando però si accresce di qualche migliaio, ma quell'aumento è di poca durata e non è certo desiderato da nessuno degli abitanti, poichè si tratta di esiliati.
É infatti da Tobolsk che quei disgraziati, condannati alla dura vita delle miniere di rame o di mercurio, cominciano la terribile marcia a piedi attraverso le immense steppe nevose per raggiungere i loro luoghi di pena. Colà si formano quelle interminabili catene di uomini che poi vengono diramati su quella sterminata regione, e che sono condannati a marciare dei lunghi mesi e talvolta perfino degli anni interi sotto la neve e fra i ghiacci, oppure sotto un sole ardente, succhiati vivi da milioni di avidi tafani.
Si può dire, Tobolsk, il centro da cui partono i condannati, il luogo dove ricevono il loro ultimo foglio di via e da dove cominciano le tremende marce sulla Wladimirha (via della Siberia).
Il 27 dicembre del 1880, un battello a vapore, di quelli che servono al trasporto degli esiliati, fendeva rumorosamente le acque dell'Irtish, avvicinandosi a Tobolsk, le cui cupole si distinguevano confusamente sul nebbioso orizzonte. Era uno svelto piroscafo, con grandi ruote per vincere la rapida corrente del fiume, equipaggiato da un buon numero di marinai e di cosacchi, ma quel giorno non traeva a rimorchio alcuna di quelle grandi chiatte di lamiera galvanizzata, vere prigioni galleggianti, entro le quali vengono stipati, come le acciughe, i colpiti dalla giustizia russa. La presenza però di quei cosacchi, disposti lungo le murate del battello, colle baionette inastate sui fucili, come fossero pronti a reprimere un tentativo di insurrezione o di fuga, bastava a far comprendere che, se mancavano le chiatte, non mancavano gli esiliati.
Infatti, seduti presso il boccaporto maestro, colle catene ai polsi e rigorosamente sorvegliati, stavano due uomini, i quali di quando in quando si scambiavano qualche parola.
Uno era una specie di gigante, alto quasi sei piedi, con ampie spalle, petto enormemente sviluppato, un vero tipo di granatiere finlandese. Poteva avere trentasei o trentotto anni, ma la sua ampia fronte era solcata da rughe precoci e sul suo volto, aperto e simpatico, si stendeva un velo malinconico. Era biondo come lo sono in generale tutti gli uomini di razza slava, con folti baffi che gli davano un aspetto marziale, una fronte alta, spaziosa, occhi d'un azzurro profondo che ora mandavano lampi ed ora pareva diventassero umili; lineamenti recisi, ma simpatici.
L'altro faceva uno strano contrasto con quel gigante. Era di statura media, con capelli e baffetti neri, occhi pure neri, vellutati, la carnagione rosea, il viso un po' largo come si riscontra nelle popolazionl della Russia meridionale. Non pareva molto inquieto nel trovarsi fra quei cosacchi dai volti duri, che non lo perdevano di vista, nè molto impressionato per le catene che gli stringevano i polsi.
Anzi, quantunque fosse molto più giovane del compagno, forse di quindici anni, guardava con aria quasi canzonatoria i suoi guardiani e sosteneva intrepidamente le loro minacciose occhiate.
Già il piroscafo non distava che un miglio da Tobolsk, quando il giovane prigioniero, volgendosi verso il compagno, che pareva assorto in profondi pensieri, disse: - Sarà dunque là, colonnello, che noi sapremo la nostra sorte?
- La nostra sorte! - rispose il gigante, scuotendo tristemente il capo. - E' già decisa, Iwan: la Siberia ci attende.
- Ma non sappiamo ancora dove ci manderanno.
- Ce lo diranno a Tobolsk.
- Andremo lontano?
- Senza dubbio: i figli della Polonia ed i nichilisti fanno paura al governo e ci manderanno forse nelle più lontane miniere per toglierci ogni speranza di ritorno.
- Ma dove?
- Forse a Vercholensk o più oltre, a Nijne-Kolymsk, a settemila chilometri da Mosca.
- A settemila chilometri? - esclamò il giovanotto. - E, ditemi, quanto tempo impiegheremo a giungere laggiù?
- Due anni almeno.
- Dovremo andare a piedi?
- Lo avete detto.
- Ma... prima di arrivarci faremo in tempo a fuggire, - mormorò Iwan.
Un amaro sorriso increspò le labbra di colui che era stato chiamato colonnello.
- Fuggire! - diss'egli a voce bassa, per non venire udito dai cosacchi. - Ah! Voi non sapete, Iwan, che cosa sia la Siberia, ignorate che cosa sia la catena vivente che marcia sull'interminabile Wladimirha. Quando vi avranno chiuso le gambe negli anelli dell'infame catena, e la sferza, il freddo, la fame, le maree forzate vi avranno stremato, sfibrato e, spenta in voi l'ultima scintilla d'energia, vi avranno ridotto uno scheletro coperto di piaghe e rôso dal male, vorrei vedervi fuggire. No, voi non sapete che cosa sia la Siberia.
- Mi fate venire i brividi, colonnello.
- Vi verranno peggiori più tardi, mio povero compagno di sventura.
- Partiremo in compagnia d'altri?
- Chissà quanti compagni ci attendono nelle prigioni di Tobolsk.
- Tutti esiliati politici?
- E ladri ed assassini, che marceranno assieme a noi, che divideranno il nostro pasto e le dure tavole della tappa.
- Noi assieme ai ladri! - esclamò Iwan, impallidendo e poi arrossendo. - Non siamo dei malviventi noi, colonnello.
- Che importa al governo ed a nostro padre lo czar? Non fanno differenza fra noi che lottiamo per un'idea, che chiediamo l'abolizione del dispotismo, e i ladri che derubano i viandanti, o gli assassini che accoltellano a tradimento le loro vittime. Temono più noi che loro e gravano la mano più su di noi, che su quei miserabili.
continua ...
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