Emilio Salgari (1862-1911) nell'anno 1878-79 partecipò come "straordinario" al primo corso presso l'Istituto Nautico di Venezia; nel 1879-80 frequentò il primo anno di capitano di lungo corso e ottenne una promozione lusinghiera; frequentò ancora il secondo corso ma - scoraggiato - abbandonò gli studi e disertò gli esami.
Ne soffrì e in seguito - senza secondi fini e anzi con una certa ingenuità - asserì di essere capitano con tanto di brevetto e difese la bugia, sia pure costretto dalle circostanze e incapace di smentire sé stesso, persino con un duello alla spada.
Ne è poi nata una sorta di leggenda, avallata nero su bianco dai figli e da numerosi suoi estimatori in buona e in mala fede. Per non dire dell'autobiografia apocrifa dal titolo "Le mie memorie" che costituisce un affronto al romanziere, al buon senso dei lettori ed anche, poiché proposto come una sorta di testamento spirituale, una sorta di "sacrilegio".
La realtà è che Salgari amò moltissimo il mare: le sue pagine più belle sono pagine di mare; i suoi personaggi migliori sono corsari, pirati, pescatori, cacciatori di cetacei, nostromi e lupi di mare.
Si direbbe che abbia voluto sfogare con la penna le amarezze di un fallimento ed insieme vivere con la fantasia le avventure che il destino gli aveva negato.
Già nel 1891, quando iniziò la pubblicazione a puntate sulla "Gazzetta di Treviso" del romanzo "La Vergine della Pagoda D'Oriente" - divenuto poi famoso col titolo "I Pirati della Malesia" (in volume nel 1896 presso l'ed. Donath di Genova) - descrisse un bel tipo di marinaio nel personaggio di Mastro Bill, nostromo della "Young India".
Mastro Bill, durante la sua breve apparizione, usa il gergo degli uomini di mare; però, chi volesse gustarlo, dovrà cercarsi le prime edizioni del romanzo, poiché nelle ristampe successive le sue parole hanno arbitrariamente subito una metamorfosi in frasario da turista balneare.
Ad esempio la frase: " potrebbe piombarci addosso un tifone e mandarci a bere nella gran tazza tutti…" nella ristampa Sonzogno del 1936 diventa: "- potrebbe piombarci addosso un tifone e sprofondarci negli abissi del mare… mentre "la gran tazza comincia a bollire" diventa "le onde cominciano ad agitarsi".
Il primo lupo di mare di Salgari e' il capitano danese Valdemaro Weimar de "I Pescatori di Balene" (in volume nel 1894, ed. Treves), comandante e proprietario della baleniera "Daneborg Aalborg": vigoroso, energico, alto e biondo, e' sui mari dall'età di dieci anni e tutti rispettano la sua indiscutibile esperienza.
Gli fa da spalla - secondo una annosa tradizione narrativa - il tenente Hostrup, basso e tarchiato, più vecchio, robustissimo e col naso rosso, forse - suggerisce il Nostro - "per soverchio abuso di bevande spiritose". Indomito e mattacchione, finirà con l'attirarsi tutte le simpatie dei lettori, in ottemperanza d'altronde a un espediente letterario voluto dall'Autore, che dimostrerà attenzioni sempre più marcate proprio ai lupi di mare con il linguaggio colorito e l'inclinazione all'alcool.
E' anzi dello stesso anno 1894 "Le novelle Marinaresche di Mastro Catrame" (ed. Camillo Speirani, Torino) in cui si legge la descrizione più bella e più intrigante di vecchio marinaio riscontrabile nell'intera opera di Salgari, il quale nutrì certamente per questo personaggio una predilezione spiccata, così da farne non soltanto il portavoce a scopi didattici del folclore e delle leggende marinaresche, ma anche una figura romantica, indimenticabile e insieme patetica. Sorpreso ubriaco durante la navigazione, Mastro Catrame deve, per punizione, raccontare all'equipaggio durante dodici sere consecutive le più strabilianti storie marinaresche che conosca: e il libro non e' altro se non il resoconto delle dodici avventure del vecchio, superstizioso mastro.
La prima edizione contiene fra l'altro una prefazione in cui domina l'ormai galoppante leggenda salgariana: "…ebbene da queste felici condizioni ha saputo trarre profitto l'amico mio, Prof. Emilio Salgari, il quale, dopo corso l'oceano per anni e anni e studiata con vivo interesse la vita marinaja in tutti i suoi gradi e aspetti…" e via di questo passo.
Il romanzo sarà riproposto nel 1909 dalla Casa Editrice Italiana di Milano che gli assegnò un nuovo titolo: "Il Vascello Maledetto" (che non piacque a Salgari) e una nuova prefazione di Antonio Quattrini Garibaldi, "pirata della penna" Salgari. Costui trovò modo di insistere sulla perdurante leggenda di cui sopra: "Emilio Salgari in questo libro dimentica di essere l'autore di un centinaio di libri fantastici e ci dipinge certe realtà della vita di bordo come solo può farlo un marinaro che nell'esplicazione peculiare della vita marittima abbia trovato tempo per studiare e osservare uomini e cose…".
A parte la disinformazione di codesti signori (Salgari, si sa, non era professore ne' aveva scritto un centinaio di libri), è evidente che la leggenda del Salgari-Capitano trovò risonanza grazie all'intervento interessato degli editori.
Il triennio 1894-96 e' senza dubbio il più ricco e vivace della bibliografia del Nostro. In quel periodo egli era particolarmente in forma, ricco di entusiasmo e di speranze sull'avvenire, conteso da Speirani, Treves, Cogliati, Bemporad, Paravia e Donath. Pubblicò nei tre anni 18 romanzi, tre lunghe novelle, nove racconti e oltre quaranta articoli per bambini. Ed e' proprio in questo periodo che appaiono i suoi uomini di mare più convincenti, dal comandante Candell de "Il Tesoro del Presidente del Paraguay" (1895) a Don Pablo Guzman de "I Naufraghi del Poplador" (1895) e a Mastro Hurtado, gran masticatore di tabacco de "I Drammi della Schiavitù" (1896), per citarne alcuni. Ricordiamo ancora il capitano Tompson ("I Naufraghi dello Spitzberg", 1896), Mastro Tyndhall ("I Cacciatori di foche nella Baia di Baffin", 1896), il capitano olandese Wan-Stael ("I Pescatori di Trepang", 1896), per arrivare ad un trasparente autoritratto: l'ex-ufficiale di mare Emilio Albani di Venezia ne "I Robinson Italiani" (1896): "… la sua ampia fronte, appena segnata da una ruga precoce, indicava che quell'uomo era inclinato alla riflessione; i suoi occhi, sormontati da due sopracciglia folte, dall'ardita arcata, erano profondi, ma talora scintillavano e pareva allora che volessero penetrare nel più profondo dei cuori; le sue labbra strette, ombreggiate da un paio di baffi rossicci, indicavano che quello sconosciuto doveva possedere una incrollabile energia".
Il suo intervento nella drammatica scena del naufragio è decisivo: "- Un tempo sono stato ufficiale di mare come voi, capitano, e di tali costruzioni me ne intendo. In acqua la boma della randa e poi picchiamo dentro all'albero maestro. Ci potranno servire per un primo punto d'appoggio. - Ben detto, signor Emilio".
Troviamo ancora intrepidi uomini di mare ne "Gli corridori del mare" (1900), "I Naviganti della Meloria" (1902), "I Solitari dell'Oceano (1904), ma nessuno che presenti un carattere innovatore.
E' un controsenso e tuttavia occorrerà attendere il periodo di "stanca" del romanziere, ormai depresso e logorato da un'attività frenetica dove si riscontrano in numero sempre maggiore ripetizioni e luoghi comuni, per rintracciare un personaggio perfettamente riuscito, ultimo guizzo di una fantasia che rifiuta di morire: Testa di Pietra.
Testa di Pietra, che avrà l'ingrato compito di concludere definitivamente una delle più fortunate ed entusiasmanti carriere letterarie, resta infatti il personaggio di maggior rilievo nella trilogia denominata "Ciclo delle Bermude".
Già la sua prima apparizione ne "I Corsari delle Bermude" (1909), con quella sua vecchia pipa di vera schiuma di Smirne, quei suoi furori battaglieri, quel suo linguaggio al fulmicotone e quella sua figura irrevocabilmente testarda, da buon bretone, e' tutto un programma. Si leggano, ad esempio, i tre capitoli a lui interamente dedicati: "Il bretone all'abbordaggio di una cameriera", "Le audaci imprese del bretone" e "I furori di Testa di Pietra": si capirà allora come, ideato come "spalla", come comparsa nell'intreccio amoroso e patriottico del Ciclo, abbia finito poi col prendere la mano al suo creatore.
Anche nel libro successivo, "La Crociera della Tuonante"(1910), i moccoli e le peripezie del vecchio bretone fanno la parte del leone; ed ecco che si aggiudica il titolo del terzo e ultimo romanzo del ciclo: "Le Straordinarie avventure di Testa di Pietra" (1915). Postumo e portato a termine da Aristide Marino Gianella.
Ed era logico che l'ultima creazione di Salgari, eternamente solo con i suoi sogni, sia stato un simpatico, granitico lupo di mare!
Felice Pozzo
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