La prima cosa che salta agli occhi è che in questo romanzo Sandokan è ancora il protagonista principale e partecipa sempre in prima persona all’azione. Qui Yanez, Tremal-Naik e Kammamuri sono ancora dei comprimari.
Solo successivamente Yanez e Kammamuri, nell’ordine, toglieranno la scena a Sandokan, diventando, negli ultimi libri del ciclo della Malesia i protagonisti principali.
Sono frequentissime le scene di caccia e gli animali sono dipinti come ferocissimi e sempre pronti ad attaccare l’uomo. Ad esempio il rinoceronte è descritto come un animale dotato di sola forza bruta e senza cervello che merita, alla stessa maniera della tigre, di essere sterminato. E’ evidente che all’epoca le problematiche ambientaliste erano veramente poco sentite……
Anche in questo libro le simpatie di Salgari vanno ai più deboli e pertanto dalle sue righe traspare ammirazione e appoggio morale alla lotta dei ribelli Indiani contro gli Inglesi. Questi ultimi sono definiti senza mezzi termini sfruttatori. Nelle pagine finali si possono leggere parole di esaltazione del coraggio dei rivoltosi indiani visti come simbolo dell’anti-colonialismo, tema molto caro a Salgari.
Agli Indiani vanno le simpatie salgariane in quanto combattenti per la libertà ma allo stesso tempo non risparmia loro, in modo particolare per mezzo dei dialoghi tra Sandokan e Tremal-Naik, frecciate sarcastiche sulla loro religione.
Ad esempio sono definiti creduloni per i loro infantili sacrifici (come quelli delle capre in onore di Kalì). Sempre Sandokan e Tremal-Naik sorridono della visione della fine del mondo che hanno gli indù: Vishnù che scende sulla terra su un cavallo bianco e impugnando una spada fiammeggiante stermina tutti gli uomini empi e purifica la terra da ogni male. Concetti che non sono poi molto diversi da quelli espressi nell’Apocalisse di Giovanni, uno dei testi sacri della religione cristiana.
L’impressione che si ricava leggendo tali commenti è che Salgari pensasse all’induismo proprio come ad una religione per bambini creduloni e/o selvaggi ignoranti.
Si deve però osservare che l’intero libro è pieno di accenni, (quasi) sempre precisi, alla religione e alla mitologia induista dando così una ulteriore testimonianza del lavoro di ricerca ed approfondimento effettuato da Salgari quando doveva scrivere di un qualche argomento.
Ricordo con piacere che è stato proprio leggendo i libri di Salgari ambientati in India che sono venuto a conoscenza del fondamentale concetto dell’induismo sulla reincarnazione dell’anima in una forma di vita superiore o inferiore a seconda della bontà o della cattiveria delle azioni compiute nella vita precedente.
A suo tempo i libri di Salgari sono stati per me non solo uno svago ma anche uno strumento per ampliare le conoscenze e aprire la mente alla scoperta che nel mondo esistano culture e civiltà diverse dalla nostra, che è, a mio avviso, uno degli scopi di ogni lettura.
Tra tutti i riferimenti di carattere religioso ce n’è però uno completamente sbagliato. Salgari parla di pagode come luoghi di culto dell’induismo mentre in realtà le pagode sono edifici religiosi da collegare unicamente al buddhismo.
Se però andiamo a consultare qualche vecchio dizionario abbiamo qualche sorpresa. Ad esempio da un dizionario del 1941, cioè posteriore di circa 40 anni alla prima edizione de “Le due tigri” leggiamo con sorpresa:
“Pagoda: tempio dove gli indiani e altri popoli orientali adorano i loro idoli”.
Pertanto la spiegazione della inesattezza di Salgari è che all’epoca della stesura del libro la cultura occidentale non aveva ancora evidenziato che la pagoda è un edificio religioso che deve essere riferito solo al buddhismo.
Ancora una volta, quindi, l’idea che Salgari preparasse minuziosamente e con grande attenzione e precisione i suoi scritti non viene scalfita.
Sempre dallo stesso dizionario del 1941 riporto la definizione di idolo: “Statua rappresentante una falsa divinità”.
Quindi le pagode erano considerate generici luoghi di culto delle religioni orientali in cui si adoravano false divinità.
Se questa era l’idea della cultura ufficiale nel 1941 sulle divinità dei popoli orientali non ci devono quindi stupire lo scetticismo ed il sarcasmo di Salgari nei confronti dell’induismo e delle sue divinità.
Come al solito occorre ricordarsi che Salgari ci precede di 100 anni e in tale lasso di tempo la visione del mondo è molto cambiata e, perlomeno in certi ambiti, in meglio e pertanto quello che negli scritti di Salgari a noi, giudicandolo con il nostro moderno metro di giudizio, appare razzismo e disprezzo delle civiltà e delle società non occidentali, è in realtà solo lo specchio del pensiero occidentale dell’epoca riguardo al resto del mondo.
Anzi, probabilmente, Salgari era, rispetto alla media dell’epoca, una persona molto aperta e in avanti rispetto, ai suoi tempi, su certe problematiche come si evince ad esempio dal suo anticolonialismo e dai numerosi matrimoni misti che ha inserito nei suoi romanzi.
Livio Belli
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